La forza evocativa dell’incompiuto: il Facciatone del Duomo Nuovo
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La forza evocativa dell’incompiuto: il Facciatone del Duomo Nuovo

Quando ne concepì l’idea, nei primi decenni del Trecento, Siena era quasi al massimo del suo spazio fisico e si misurava con altri progetti più grandi delle sue stesse necessità.

La forza evocativa dell’incompiuto: il Facciatone del Duomo Nuovo
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

21 Settembre 2023 - 01.18


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Un’orbita vuota conquista lo sguardo nello skyline di Siena stretta com’è dentro il disegno compatto delle mura medievali. Vista da sud sembra vicinissima alla torre del Mangia e al palazzo del Comune. Si tratta di un’enorme finestra che si apre nei 34 metri di altezza del Facciatone incompiuto del Duomo Nuovo.

Quando ne concepì l’idea, nei primi decenni del Trecento, Siena era quasi al massimo del suo spazio fisico e si misurava con altri progetti più grandi delle sue stesse necessità. La Porta Romana alta 27 metri o della snella torre del Mangia  con i suoi 88. Quelle altezze spropositate non avevano altro valore che quello simbolico, erano un biglietto da visita.

Ma non tutto è oro quello che luccica. Quando il progetto dell’ampliamento del Duomo era arrivato davanti consiglio per l’approvazione qualcuno aveva denunciato pubblicamente che l’opera avrebbe portato alle stelle la spesa pubblica e che dietro le belle parole patriottiche e identitarie c’erano niente meno che favori inconfessabili che i governanti accordavano ai finanziatori del bilancio del Comune. Chi aveva denaro da prestare, cari miei, se la ride, si disse, ogni volta che viene varato un grande e costoso progetto pubblico.

Ma, si sa, le minoranze non governano. Dopo qualche anno con solennità era stata posata la prima pietra, erano stati innalzati i pilastri e le volte.

Poi il Duomo Nuovo era stato abbandonato. Non per la peste, perché dopo la grande catastrofe i lavori continuarono ancora per diversi anni, ma perché le volte erano pericolanti, il costo della manodopera aumentava e i nuovi governanti che avevano preso il posto di quelli caduti in disgrazia accantonava la ‘politica delle grandi opere’. Quel progetto smodato, che interessava una superficie di 140 metri per 71, era orami sovradimensionato rispetto alla popolazione, alle energie economiche, al sapere tecnico e alle volontà politiche della città.

Nell’orbita vuota della grande finestra è sintetizzata ancora oggi quella mania di grandezza, quel tanto di eccessivo e di avventato che, da Dante in poi, è considerato caratteristico dell’indole senese, anche se pare meno riconoscibile nell’agire politico contemporaneo. Il Facciatone, solenne resto, è una testimonianza rara di abbandono improvviso di una impresa di grande portata e ci ricorda che nella storia materiale delle città sono scritti i loro sogni, i loro successi, le loro creazioni e anche le loro crisi e fallimenti. Siena lo sa, come ogni altra città italiana. E quando se lo dimentica interviene la realtà a ricordarle che niente è conquistato una volta per tutte.

Poiché Siena, con il suo ‘monumento alla crisi’, ha però continuato a vivere.

Si può allora provare a guardare diversamente a questi fallimenti e pensarli piuttosto come incompiuti. Gli edifici crescono, gli uomini cambiano gusti e idee su di essi, li abbandonano, li riprendono, li riusano. Anche le cattedrali possono produrre la fantasia purista di Violet le Duc o il genio libero di Guadì. La cattedrale di Colonia ci ha messo 600 anni a crescere, così il duomo di Milano, San Pietro, Notre-dame… E la Sagrada familia non è ancora conclusa dopo 140 anni, eppure il suo folle neogotico ne ha fatto uno dei simboli di Barcellona contemporanea.

Un ‘incompiuto’, o un ‘non ancora compiuto’, o un ‘non completamente compiuto’, è qualcosa che non ha concluso il suo ciclo e che per questo può essere ancora in grado di dare. Oggi lo spazio del Duomo Nuovo di Siena, ai piedi del Facciatone, è invaso dalle macchine in sosta, eppure potrebbe offrire ghiotte occasioni per la città, per la cultura, per l’identità, per il turismo, per gli spettacoli. Potrebbe essere la quinta per una magnifica Turandot, ultima lirica incompiuta del genio Puccini, completata poi dal genio Luciano Berio.

In fondo anche Leonardo realizzò ben poco di quello che progettò, lasciò tanto di incompiuto. Ma aprì delle strade, coltivò l’utopia. Tracciò la traiettoria, creò un immaginario. 

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