Con "Vanity Dark Queen" Niobe rivive al Campania Teatro Festival
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Con "Vanity Dark Queen" Niobe rivive al Campania Teatro Festival

La vendetta e l'odio tra donne al centro della terza storia dark del regista Stefano Napoli sul palco di Villa Floridiana a Napoli

Vanity Dark Queen-Niobe regina Tebe - di Stefano Napoli - di al Campania Teatro Festival - Ph Dario Coletti
Vanity Dark Queen al Campania Teatro Festival - Ph Dario Coletti
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7 Luglio 2023 - 20.14


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di Alessia de Antoniis

Uno spettacolo, forse, non facilmente accessibile quello ospitato nella suggestiva cornice di Villa Floridiana nell’ambito del Campania Teatro Festival e firmato da Stefano Napoli. È “Vanity Dark Queen – Niobe regina di Tebe” che chiude, dopo Elena di Troia e Cleopatra, la trilogia sulle dark queen del visionario regista e drammaturgo.

Primo requisito necessario: la conoscenza della storia di Niobe e del suo peccato, la vanità. Peccato ricordato anche da un cartello in scena. Ma il peccato di Niobe è ben più grave. La vanità è un sentimento ego riferito, riguarda l’orgogliosa manifestazione di una nostra caratteristica o dote. Niobe pecca di hybris, l’arroganza dell’uomo che ostenta una propria dote agli dèi.

In scena lo straziante dolore di una madre che aveva sfidato Latona, vantandosi dei suoi quattrodici figli – da dodici a venti a seconda delle tradizioni – mentre lei, una dea, aveva partorito solo due gemelli: Apollo e Artemide. Una disputa tra donne, giocata con armi maschili: le frecce che uccideranno tutti i figli di Niobe.

Interessante la scelta di Stefano Napoli di far indossare a un uomo gli abiti della dark queen: è un uomo a soffrire per l’uccisione dei figli, per la vendetta di una dea, per la crudeltà di una donna.

Come in un museo, “Vanity Dark Queen” è una tragedia raccontata in diciotto quadri, incorniciati dalle luci di Mirco Maria Coletti, dove la parola è sostituita dal gesto, la voce narrante dalla musica: da Dinah Washington a Puccini, da Bellini a Sakamoto a Ortolani.  Sono i corpi di Paolo Di Caprio e Luigi Paolo Patano a trasmettere rabbia, dolore, sofferenza, ira: espressioni plastiche che rimandano ai corpi ricchi di pathos del Caravaggio come Medusa, Oloferne o il Cristo deposto. Mentre le frecce lanciate come dardi di Cupido da Apollo e Artemide, esprimono il lato oscuro dell’amore, l’odio, diffondendo vendetta e morte.

Paolo Bielli, Francesca Borromeo, Alessandro Bravo, Paolo Di Caprio, Luigi Paolo Patano e Simona Palmiero si muovono all’interno e all’esterno della quarta parete per una performance che esula da uno spettacolo di danza. I e le performer della compagnia Colori Proibiti sono espressione del percorso di sperimentazione che Stefano Napoli porta avanti da anni. Una ricerca sul linguaggio del corpo; un teatro che cerca la parentela con l’arte figurativa, nel quale i corpi degli attori, quasi sempre muti, si esprimono in quadri plastici di forte emozione che, accompagnati da un impianto sonoro variamente evocativo, sollecitano la memoria visiva dello spettatore.

“Visito per caso la Galleria degli Uffizi a Firenze – racconta il regista Stefano Napoli – e vedo la stanza dei Niobidi. Sono i figli di Niobe colti nell’attimo dello strazio della morte. Le frecce di Apollo e Artemide sono mortifere, non lasciano scampo. Mi scopro a pensare che la bellezza per i Greci era un argine al dolore e alla morte. Questi inevitabili sì, ma qualcosa poteva durare più dell’effimera vita: la bellezza appunto e il ricordo. Qualcuno scatta foto e poco più in là un ragazzo sta facendo uno schizzo.

Niobe è la madre. Punita dagli dei per aver osato gridare la sua felicità di madre sazia di figli, quando solo gli dei, e non i mortali, possono dirsi felici. Mi coinvolge di Niobe il suo essere una ribelle, una creatura di frontiera, al limite tra due mondi, quello divino e quello umano. Nell’antichità il mito di Niobe doveva essere un monito, ma io non sono alla ricerca di cause, colpe, delitti. Voglio solo guardarla. La sua è una storia d’amore, vanità, invidia, perdita, resistenza. Così ho spiato Niobe sull’orlo dell’abisso e nel suo dolore. Spero che non me ne voglia.

Mi sono fatto influenzare – conclude Napoli – dalle trasformazioni dell’immagine di Niobe da ribelle a mater dolorosa e regina del lutto e poi, con i suoi figli, a elemento decorativo di fontane e giardini. Ho ammirato la sua leggerezza e la sua durezza, la sua voglia di vivere nonostante tutto. E naturalmente ho letto anche Ovidio e Igino”.

La mise en place della Compagnia Colori Proibiti ricorda soprattutto la circolarità del gruppo scultoreo così come immortalato nelle stampe di Francois Perrier, quando il gruppo di Niobe arredava i giardini di Villa Medici a Roma. E ha anche la potenzialità per esprimerne tutta la potenza: la drammaturgia, le musiche, i performer. Peccato che in alcuni punti il passaggio da un quadro all’altro risulti poco fluido e le figure femminili siano forse poco valorizzate.

Da segnalare uno spettacolo nello spettacolo: il piccolo site-specific dell’artista Paolo Bielli che lavora una testa di creta ai piedi del palcoscenico: l’arte scultorea che ha reso immortali i drammi della storia e della mitologia. A tratti entra in scena disegnando schizzi, mischiandosi tra i mitologici personaggi: una sorta di contrappeso alla fotografa in scena che scatta in continuazione come una turista, un paparazzo o una fotoreporter che dà in pasto la morte a fruitori bulimici di immagini dark, in un “qui e ora” confuso ormai con il “fast”: food, information, fashion, art. Comunque non destinate ad assurgere a quell’arte che ha tramandato nei secoli le immagini del mito.

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