Questione meridionale: la 'frattura' tra nord e sud che non si è mai ricomposta
Top

Questione meridionale: la 'frattura' tra nord e sud che non si è mai ricomposta

Il lavoro di Filippo Sbrana, Nord contro Sud La grande frattura dell’Italia repubblicana è un contributo sulla ricostruzione e l’interpretazione della contrapposizione fra Nord e Sud che si determina fra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni

Questione meridionale: la 'frattura' tra nord e sud che non si è mai ricomposta
Questione meridionale
Preroll

globalist Modifica articolo

11 Giugno 2023 - 16.48


ATF

di Antonio Salvati

All’Italia spettano molti miliardi di Next Generation EU proprio perché esiste una questione meridionale ancora aperta. Il Mezzogiorno e la sua strutturale arretratezza economica, politica e sociale favoriscono – e favoriranno – l’arrivo nel nostro Paese di consistenti finanziamenti europei in quanto il Sud del nostro paese è individuato come prioritario nella programmazione dei fondi. I dati disponibili dimostrano – dopo oltre 160 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia – la persistenza di notevoli divari territoriali che contrappongono il Mezzogiorno al Centro-Nord, soprattutto attraverso alcune dimensioni come: l’istruzione, la demografia, la politica industriale e il funzionamento della pubblica amministrazione sia nella sua funzione di erogazione di servizi, sia nella sua capacità di spesa dei finanziamenti pubblici.

La “questione meridionale” è assente da diversi decenni dalle attenzioni della politica nazionale. Malgrado l’avvio delle politiche comunitarie di convergenza dopo il 2000, si sono decisamente rarefatte le riflessioni sul Mezzogiorno, ad eccezione delle periodiche indagini della Svimez. Anche nell’ultima campagna elettorale, per molti versi tra le più indecenti e improbabili degli ultimi anni, la questione meridionale è stata la grande assente nei dibattiti. Eppure, l’Italia resta un paese per tanti verso spaccato e a due velocità, e l’ultimo decennio di crisi economica ha contribuito ad acuire il divario. Eppure il Sud ha circa 20 milioni di abitanti, il doppio o più del doppio della Svezia, dell’Austria, della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, della Grecia; solo quattro stati membri dell’Unione Europea hanno una popolazione maggiore. Le disparita del paese – ha sottolineato recentemente Gianfranco Viesti (Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Laterza, 2021, pp. 496 € 28) – vanno collocate in un quadro più ampio, con la consapevolezza che per comprendere le cause, la situazione e le prospettive dello sviluppo di tutti i territori italiani sia indispensabile collocarle nell’ambito delle grandi trasformazioni, economiche, tecnologiche, politiche del quadro internazionale, compararle sistematicamente con ciò che avviene nel resto d’Europa, comprendere l’importanza e l’impatto di tutte le politiche pubbliche. È difficile, in altri termini, capire il Mezzogiorno o l’Italia guardando solo quel che accade nel presente, e nei loro confini.

Il recente lavoro di Filippo Sbrana, Nord contro Sud La grande frattura dell’Italia repubblicana (Carocci pp. 245, € 28) è un ulteriore contributo sulla ricostruzione e l’interpretazione di tale frattura, la contrapposizione fra Nord e Sud che si determina fra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta del Novecento, connettendo gli elementi economici a quelli sociali, culturali, politici e istituzionali. In questi anni influirono le innovazioni istituzionali, come la creazione delle regioni nel 1970, che contribuirono a far maturare negli italiani un diverso rapporto con il territorio, mentre lo scenario politico iniziava a mutare: basti pensare alla nascita delle leghe poi riunite nella Lega Nord e alla crisi dei partiti della prima Repubblica, per i quali la questione meridionale era sempre stata cruciale. Ma c’è molto altro, sostiene Sbrana: «le migrazioni, ad esempio, ebbero un ruolo significativo nella vicenda, a diversi livelli: dal Sud al Nord del paese, dall’Italia verso l’estero, ma anche quelle degli immigrati stranieri nella penisola. Se è ben noto che in alcuni periodi e contesti tali flussi suscitarono forme di contrapposizione, è probabilmente meno risaputo che in altri favorirono una maggiore unità del paese intorno alle aree più povere».

La questione degli squilibri territoriali è assai articolata e più sfaccettata dello schematismo Nord/Sud. Il Veneto, ad esempio, ha rappresentato per molto tempo una delle aree meno sviluppate del paese, segnata fra l’altro da notevoli flussi migratori in uscita, come ricordano i noti romanzi del compianto Antonio Pennacchi. La velocità di cambiamento nel sistema produttivo di tale regione è emblematica e attesta – spiega Sbrana – «che nell’analisi economica non possono sussistere schemi rigidi e fissi nel tempo. Una medesima percezione appare evidente dalla diversità nello sviluppo che si osserva oggi fra le aree meridionali». Negli anni Novanta del Novecento avviene una cesura di grande rilievo nella storia italiana: dal secondo dopoguerra lo sviluppo del Mezzogiorno era una sfida centrale per l’intero paese, ma mentre la Seconda Repubblica prende il posto della Prima i problemi del Sud escono dalle priorità dell’agenda politica e la discussione sul dualismo si concentra soprattutto sulla questione settentrionale, senza che i ritardi delle aree meridionali siano stati superati.

A dare avvio al progressivo allontanamento del Nord dal Sud – oltre alla crisi energetica (lo shock petrolifero che portò alla fine della golden age dell’economia mondiale), una vicenda globale, che in Italia si sommò ad altri shock e provocò la prima contrazione del PIL dopo un ciclo espansivo durato molti anni – ci fu un altro elemento che ebbe un impatto di notevole rilievo, anche se meno immediato: la costituzione delle regioni a statuto ordinario sull’intero territorio nazionale. La loro istituzione nel 1970 presentò da subito molti elementi di criticità, deludendo i tanti auspici che erano stati formulati. Inoltre, anziché portare benefici al Mezzogiorno, finì per avere conseguenze assai negative. Secondo Guido Pescosolido l’istituzione dei nuovi enti rappresentava «la più grande occasione che mai si era presentata dall’Unità in poi alla società meridionale di prendere in mano il proprio destino amministrativo e civile». Questa grande occasione fu sprecata. I nuovi enti si rivelarono un pessimo affare per il Mezzogiorno, perché innescarono una serie di processi che avrebbero fatto aumentare il divario e favorito la contrapposizione fra Nord e Sud. Fu «per molti sostanziali aspetti un evidente fallimento», per dirla con Piero Craveri. Si finì per – spiega Sbrana – «aggiungere al sistema politico italiano una nuova stratificazione nella distribuzione della spesa pubblica, che assunse rapidamente caratteri clientelari. Non ci fu discontinuità, furono riprodotte le stesse logiche politiche preesistenti. D’altro canto, i mancati trasferimenti di poteri e di apparati pubblici erano segnali evidenti della volontà di non realizzare l’autonomia che era stata promessa».

L’innesto delle regioni nei processi decisionali della Cassa del Mezzogiorno – costituita nel 1950 diede avvio ad un’azione di rilievo, con risultati assai positivi con apprezzamenti a livello internazionale e anche da un osservatore non sospettabile di simpatie per i meridionalisti come Indro Montanelli– nel nuovo contesto si trasformò rapidamente in un “carrozzone”, come tante volte sarebbe stato definito negli anni successivi. La sua attività venne guardata con crescente sfiducia e nel 1976 fu rinnovata fra molte perplessità.

Non di poco conto fu il fenomeno del cosiddetto “riflusso” che negli anni Ottanta crebbe in modo trasversale. Si manifestò una nuova attenzione ai bisogni individuali, un ripiegamento nel privato accompagnato da una crescente sfiducia verso la politica. Al termine di una stagione di forte militanza, nel mondo giovanile e in quello del lavoro, «l’idea della costruzione del futuro attraverso l’azione di massa perse forza, insieme alla fiducia verso i partiti. Il fallimento di alcune aspettative politiche, gli anni di piombo, le utopie vissute con intensità che si trasformarono in vere e proprie disillusioni, favorirono l’abbandono di un approccio molto collettivo e ideologizzato. Ci si ritirò nella vita privata e si abbandonarono le logiche dell’appartenenza, di classe, di lavoro. Con percorsi diversi, che però portarono a un risultato condiviso: il grande movimento collettivo degli anni Settanta finì con un ripiegamento in direzione del privato». Perdevano peso e rilevanza due aspetti che avevano caratterizzato una parte rilevante del paese: l’impegno politico di tanti e l’appartenenza orgogliosa alla classe operaia, intesa come una protagonista nella costruzione della società. Si trattava di fattori in qualche modo unificanti, «che avevano legato insieme molti soggetti diversi conferendo loro forza plurale, ma anche un orientamento e una speranza personale. Il loro esaurirsi era il segno di un processo di frammentazione, che portò da un approccio collettivo a tanti percorsi solitari». Mentre la società italiana registrava questo diffuso ripiegamento in direzione della sfera personale, si andava diffondendo quasi una nuova antropologia, che sfuggiva alle logiche dell’appartenenza collettiva e coltivava aspettative e desideri nel proprio privato. Un elemento ulteriore che caratterizzò in profondità il decennio fu proprio l’affermarsi di una forte dimensione individuale. Ha scritto Gervasoni in un libro dedicato a questo periodo: «Lo spirito degli anni Ottanta […] si può tratteggiare sommariamente in alcune parole d’ordine; ricerca della libertà individuale, fine delle ideologie politiche, perseguimento della soddisfazione personale, attraverso la realizzazione professionale e anche il guadagno. Una sorta di collettivo “arricchitevi!” non solo in senso finanziario, ma anche (e forse soprattutto) rivolto ad acquisire esperienze, nuovi percorsi e orizzonti. Per la prima volta in forme così massicce gli italiani sembrano indirizzarsi verso una società degli individui». Nel corso degli anni Ottanta tale approccio diventò una sensibilità diffusa, centrale nel discorso pubblico, quasi un «ethos dominante». Crebbero molto i consumi di massa, altro elemento caratterizzante del periodo, e Silvio Berlusconi, imprenditore milanese, che aveva iniziato nel 1980 con Canale 5 – ricorda Gervasoni – «una scalata che modificò per sempre non solo il carattere dell’informazione, ma la stessa antropologia degli italiani».  Seguirono Italia 1 (con la trasmissione cult Drive in) e gli altri canali, una sorta di vento televisivo del Nord che soffiò sul paese plasmandone nel tempo gusti e sensibilità.

Altro elemento di rilievo che favorì la frattura fra Nord e Sud fu la crisi dei partiti a partire dagli anni novanta. Essi attribuivano grande importanza alla questione meridionale e – ricorda Sbrana – «fino a quel momento avevano avuto una funzione unitaria nel paese, ma videro logorarsi il rapporto con la propria base e registrarono un forte calo di fiducia da parte degli elettori». Persero forza nello stesso periodo anche altri grandi soggetti collettivi, che avevano considerato cruciale lo sviluppo del Mezzogiorno.  Fu una fase molto particolare nella storia del paese, in cui si sovrapposero scandali giudiziari, aumento del debito pubblico, drammatica crescita della violenza mafiosa e una rapida accelerazione del processo di integrazione europea (trattato di Maastricht). In un sistema politico ormai infragilito, «la Lega spinse con forza sull’antitesi fra Nord produttivo e Sud assistito, accentuò l’identificazione fra partiti tradizionali e regioni meridionali, indicò i trasferimenti al Mezzogiorno come l’emblema di uno Stato centrale inefficiente e corrotto».

Dopo la crisi finanziaria del 2008, l’Italia ha perso terreno rispetto ai paesi più avanzati e al resto dell’Europa, mentre il Sud – come osservano studi della Banca d’Italia «ha visto progressivamente diminuire il suo peso economico, evidenziando una crescente difficolta nell’impiegare la forza lavoro disponibile [e] una riduzione dell’accumulazione di capitale» che in precedenza era sostenuta dall’intervento pubblico. I dati sull’andamento del Pil nel Mezzogiorno sono costantemente inferiori a quelli del resto del paese, spesso in maniera sensibile. Le analisi dei divari hanno documentato una permanente debolezza del sistema produttivo meridionale, una carenza di infrastrutture e servizi pubblici e una rilevante presenza dei fenomeni criminali, che ostacolano lo sviluppo del Sud e dell’intero paese. Gli studi più recenti delineano un quadro molto preoccupante, perché i divari si sono ampliati ed appare chiara non solo l’esistenza di una questione meridionale, ma anche di una più complessiva questione nazionale.

Dopo la pandemia e lo scoppio della guerra in Ucraina, l’Italia ha forte bisogno di coesione, di uno sviluppo armonioso e di un Sud che contribuisca al futuro del paese. Dal punto di vista economico e non solo, basti pensare alla lotta alle mafie. Sappiamo bene che ci sono state stagioni in cui i problemi delle aree meridionali sono stati affrontati con successo, riuscendo a superare anche gli elementi di sfiducia e pregiudizio esistenti. Questo ha contribuito allo sviluppo di tutta l’economia nazionale, visto che ciascun territorio è più forte se lo sono anche gli altri.

Native

Articoli correlati