Daniele Salvo dirige "La Pace" di Aristofane al Teatro greco di Siracusa
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Daniele Salvo dirige "La Pace" di Aristofane al Teatro greco di Siracusa

Daniele Salvo: "Il disprezzo dei politici, la degenerazione morale, la corruzione, la tracotanza, sono temi ancora attuali"

Daniele Salvo dirige "La Pace" di Aristofane al Teatro greco di Siracusa
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5 Giugno 2023 - 16.55


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di Alessia de Antoniis

“La Pace” di Aristofane sarà in scena al teatro Greco di Siracusa dal 9 al 23 giugno 2023, con la regia di Daniele Salvo, Giuseppe Battiston nel ruolo di Trigeo e le scenografie di Alessandro Chiti. Nel cast anche Massimo Verdastro, Martino Duane e Francesca Mària.

“La Pace è un testo difficilmente rappresentabile – racconta il regista Daniele Salvo – visionario, imprevedibile e pieno di trovate spiazzanti. Un testo che parla dell’utopia del viaggio di un uomo che vola verso l’Olimpo per liberare la Pace rinchiusa in una grotta. È un testo un po’ pasoliniano. Politici alla berlina e un mondo teatrale corrotto in cui Aristofane non si riconosceva. A Siracusa per la prima volta in cento anni dalla fondazione dell’Inda, “La Pace” è una commedia problematica”.

Dove sono le difficoltà?

Intanto Aristofane è un grande visionario, un po’ un Tim Burton dell’antichità. Bisogna cercare di restituire il suo mondo ricco, fantasioso, pieno di riferimenti a un’attualità legata alla storia della Grecia del tempo.
Aristofane scrisse “La Pace” mentre la guerra ancora perdurava. Nel frattempo morirono i due generali, Cleone e Brasida, e lui dovette cambiare il testo. Si dice infatti che esista una Pace prima e una Pace seconda, ma non sappiamo quale versione sia giunta fino a noi.
La difficoltà maggiore sta nel rappresentare concetti che il pubblico ateniese conosceva molto bene, ma sconosciuti al pubblico di oggi. Aristofane fa riferimenti a testi a volte non pervenuti. Ad esempio, il volo dello scarabeo è citato perché l’anno prima era andato in scena il Bellerofonte di Euripide, che iniziava con uno scarabeo che arrivava dal cielo. Lo spettatore, quindi, comprendeva che era una satira, e conosceva l’antipatia di Aristofane per Euripide. Ma il disprezzo dei politici, la degenerazione e la sporcizia morale della città, i sotterfugi con cui si ottengono favori da parte dei politici, considerati la ragione della rovina del popolo ateniese, la loro tracotanza illimitata, sono temi che risuonano anche allo spettatore odierno.

Ci sono concetti trasversali che hanno delle assonanze con la nostra realtà attuale, primo fra tutti l’idea dell’espansione territoriale di Atene durante la guerra del Peloponneso; una guerra che durava da più di 25 anni. Addirittura solo in tempi recenti, circa dieci anni fa, i sindaci di Atene e Sparta hanno redatto un documento simbolico che attesta la fine della guerra del Peloponneso.
Il fatto che gli unici in grado di liberare la Pace siano i contadini, esseri semplici non toccati dalla corruzione del mondo, mi fa venire in mente Pasolini quando parla del mistero del mondo contadino.

Aristofane chiama a raccolta non solo i contadini, ma tutti i greci: cerca di unirli per liberare la Pace. La pace è considerata utopica. E se la pace fosse utopica nella misura in cui non è altro che la sommatoria delle singole guerre dentro ogni persona? Il manzoniano “l’un contro l’altro armati” potrebbe essere uno slogan dei giorni d’oggi. Forse la pace dovrebbe partire da un disarmo interiore?

Mi vengono in mente le parole di Amos Oz, quando diceva che il fanatismo nasce nelle pieghe della nostra vita quotidiana, quando siamo inflessibili, quando ci ostiniamo a promuovere le nostre idee senza essere permeabili a quelle degli altri: nasce così per poi diventare fanatismo. Siamo incattiviti, cinici, uno contro l’altro. Nel testo ci sono riferimenti al colonialismo, c’è un uso particolare dei dialetti ionico e attico. Gli uni che dicono gli altri: “no voi non lavorate abbastanza, lavoriamo solo noi; voi non fate quello che dovete fare”; una forma di fanatismo anche nei confronti degli immigrati, altro concetto attuale.

Concordo sul fatto che parte tutto da una condizione interiore di accoglienza dell’altro e del diverso. Quello che diceva anche Pericle in un suo monologo agli ateniesi: rispettare l’altro, rispettare il diverso, accogliere chi è altro da te e abbassare le difese, non praticare la legge del più forte.

Perché colleghi Aristofane a Tim Burton?

Nel mio allestimento non c’è molta traccia del mondo “timburtoniano” perché non mi piace scimmiottare quello che puoi fare con il cinema ma non in teatro. Tim Burton crea dei mondi, ha una fantasia sfrenata, trasforma la realtà in una surrealtà. Vita e morte coincidono, così come allucinazione e realtà, sonno e veglia. Questo c’è anche in Aristofane. Purtroppo Aristofane è conosciuto per le sue battute sboccate, che pare gli scrivesse un altro drammaturgo perché lui detestava la volgarità. Ma la volgarità vendeva. Aristofane più che sulla volgarità, sulla battuta facile, sulla farsa, è proiettato sull’utopia, sul mondo altro. C’è sempre la ricerca di qualcosa di ideale, che parte dalla realtà ma la trasforma: è questo che mi ricorda Tim Burton.

Due caratteristiche del teatro greco oggi creano difficoltà: la gestione di grandi masse e il tempo. Lo spettatore non è più abituato a spettacoli con una tempistica che superi l’ora. Come hai affrontato queste due sfide?

La sfida è quella di parlare a un pubblico eterogeneo, fatto di specialisti, filologi, gente di passaggio, turisti in vacanza a Siracusa che nel pacchetto hanno anche il teatro greco ma non ne sanno nulla. Bisogna essere trasversali e saper comunicare attraverso l’emotività, senza abbassare il livello; senza cercare, nel caso della commedia, la comicità televisiva a buon mercato, ma impegnandosi nel veicolare concetti complessi in modo fruibile, non troppo specialistico, ma tecnico allo stesso tempo. Non è semplice, ma sono alla mia quinta regia a Siracusa.
Le grandi masse, poi, aiutano nella spettacolarità e nella tenuta dello spettacolo sul piano visivo più che su quello recitativo. Certo, bisogna fare i conti con un pubblico distratto, che a volte guarda tutto lo spettacolo attraverso l’iPad. Il pubblico di Siracusa è un pubblico molto appassionato, dove molti hanno visto negli anni tantissime tragedie, sin dai tempi di Pasolini, di Gassman. C’è una memoria che non si riscontra nel pubblico del teatro italiano in generale, dove la maggior parte è un pubblico occasionale. Ecco perché è importante lavorare su uno spettacolo che porti al massimo livello tutti i codici: costumi, luci, recitazione, coreografie.

Molti attori di cinema non hanno una formazione teatrale, ma riempiono i teatri e attirano spettatori che non avrebbero mai messo piede in teatro. Spesso è un teatro “televisivo“…

C’è un pro e un contro. Si è diffusa, nel teatro italiano, una recitazione pseudo cinematografica. A New York ho visto Daniel Washington, Bryan Cranston e altri grandi attori, che in teatro non recitano come al cinema. Hanno una potenza, una tecnica, una presenza incredibile. Ci sono diversi equivoci nel teatro italiano. Intanto si rincorre sempre il nome: questo condiziona molto, perché ci sono attori straordinari di teatro, anche di una certa età, che magari sono a casa. Poi ci sono molti attori di cinema che possono perfettamente fare teatro e attirano pubblico. Bisogna stare attenti a quello che si fa e a come lo si fa.

Sei stato attore per Ronconi. Cosa ti resta di lui?

Tantissimo. Per Luca sono stato attore e assistente alla regia. Mi ha insegnato a leggere i testi. Spesso nel teatro italiano si fraintendono i testi e si applicano le idee del regista su un fraintendimento testuale. Oppure, peggio, si utilizza il testo come pretesto per fare altro, per dimostrare che il testo non funziona. Cosa che oggi va tanto di moda, soprattutto nel teatro performativo. Invece il mondo del drammaturgo, che è il primo vero regista, va rispettato. Comprendere il linguaggio di un autore è un modo per parlare con i morti.
È importante il lavoro di scavo del testo: il regista diventa un archeologo che va a cercare nelle pieghe del testo per decodificarlo e restituirlo. Luca aveva una capacità unica di penetrare il linguaggio, faceva un lavoro de saussuriano, ai confini con la semiotica.
Mi ha regalato una grande tecnica che mi permette di gestire anche grandi masse. In “Prometeo, Baccanti, Rane” ero responsabile dei cori e assistente alla regia: un’esperienza importante per imparare a decodificare lo spazio. Perché ogni spazio ha sue leggi e i teatri non sono tutti uguali: quello che funziona al teatro greco non funziona in un teatro all’italiana, ad esempio.

Oggi Ronconi avrebbe il successo che avuto?

Me lo sono chiesto spesso. Il problema è che è cambiato il sistema teatrale. Negli anni ‘60 e ‘70 c’era il teatro di regia. Oggi siamo in un tempo di teatro performativo che disprezza la regia, disprezza il lavoro sul testo, lo riduce a qualcosa di vecchio. Negli altri Paesi, ad esempio in Inghilterra o negli Stati Uniti, non è così.
Con l’avvento delle fiction, delle serie, oggi chi fa televisione è tutto e chi fa teatro è nulla. Uno può fare teatro per una vita, poi fa una serie televisiva di successo e improvvisamente diventa un’autorità nazionale. Questo fa un po’ ridere, un po’ è triste.

In Italia andiamo a vedere l’attore e spesso non sappiamo neanche chi sia il regista. Direi che il teatro di regia è molto lontano…

La gente spesso non sa neanche cosa faccia esattamente il regista. È un problema grave che dipende soprattutto dal fatto che, nelle scuole dell’obbligo, non si fa teatro se non a livelli bassissimi e il teatro non è una materia di studio. Non è qualcosa che viene coltivato. Poi ci meravigliamo se il National Theater è sempre tutto esaurito. Ovvio, perché il pubblico inglese è abituato ad andare a teatro. È triste perché negli anni ‘60 e ‘70 venivano da tutto il mondo a vedere i nostri spettacoli. Ronconi, Strehler: grandi registi che facevano grandi spettacoli. Oggi siamo noi che dobbiamo andare all’estero.

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