Invisibile di Franco Fontana: l’autentica “confessione creatrice” di un progressista legislatore iconografico
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Invisibile di Franco Fontana: l’autentica “confessione creatrice” di un progressista legislatore iconografico

La fotografia libera e personale, slegata ed autonoma rispetto alle stabilite convenzioni figurative, nella trasmutazione dei canoni consolidati da unicamente descrittivi ad esponenzialmente emotivi.

Invisibile di Franco Fontana: l’autentica “confessione creatrice” di un progressista legislatore iconografico
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20 Febbraio 2023 - 22.51


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di Francesca Parenti

L’inconfutabile coerenza creativa congiunta alla continua e sorprendente volontà di sperimentazione linguistica, hanno reso le fotografie di Franco Fontana immediatamente distinguibili da ogni altro autore e riconoscibili, senza possibilità di errore, da qualunque altra scrittura con la luce.

Mirabilia insomma, dall’etimo latino mirabilis, per lo stupore e la sorpresa che si provano, in primis, di fronte alla pulizia dell’immagine, il rigore della composizione e un lavoro di cesellatura impeccabile.

La sua ultima imponente, importante e accurata monografia, Invisibile (Lazy Dog Press, prima edizione novembre 2022, 176 pp, 58 €, a cura di Lorenzo Respi) è uno strumento di grande aiuto per approfondire l’opera del fotografo, un supporto indispensabile per chiarirne gli inizi e la prosecuzione, seguendone l’elaborazione visiva libera e personale, slegata ed autonoma rispetto alle stabilite convenzioni figurative.

Il volume si presenta (avvalendoci del titolo di una raccolta di scritti di Paul Klee), come un’autentica confessione creatrice: una sincera dichiarazione poetica e d’intenti, il fondamento di un campo d’indagine che trasforma i paradigmi espressivi (precedenti) e i modelli linguistici (contemporanei) in ideazioni innovative, il presupposto irrinunciabile che, fin dal principio, porta l’autore a scrutare la realtà, ad esplorarla e a sondarla sensibilmente, trasmutandone i canoni consolidati da unicamente descrittivi ad esponenzialmente emotivi.

L’intero mondo esterno diviene paesaggio interiore, scenario vivente ed eloquente, parafrasato in una traduzione intuitiva dai valori percettivi, sensoriali ed esperienziali ai quali il suo stile si afferra con possanza.

Invisibile è anche, ma non solo, una meticolosa ricerca d’archivio, il punto retrospettivo e precorritore, con alea concessa, di sessant’anni di carriera e una raccolta di oltre 100 immagini (molte delle quali inedite): è soprattutto un atto di coscienza individuale, artistica, collettiva, nonché la riprova di una rotta perseguita con tenacia, schiettezza e curiositas ininterrotte.

È il riscontro di un impegno assoluto, appassionato e solerte, saldato ad un’assidua diligenza, che si fa duplice, triplice e multipla, in quanto perennemente rinnovata ma sempre fedele a se stessa, allineata lealmente al proprio io, all’agire e all’incedere sciente nella tangibile concretezza.

Tutto questo, in fusione con “l’esattezza munita delle ali dell’intuizione”, “l’interiorizzazione visuale” e “l’arte” intesa “come similitudine della creazione” (servendoci nuovamente di alcune espressioni tratte dal già citato testo di Paul Klee), permettono l’inopinato e l’inopinabile. 

Ecco perché davanti ad uno scatto di Franco Fontana accade l’insperato: ipso facto, si riconosce l’autore. Senza dubbio alcuno. Subito, sempre ed inevitabilmente. 

Non vi è nulla di immoderato o eccessivo in questa (mia) affermazione perentoria, che non ammette dilazioni e della quale mi assumo la completa responsabilità.

Invero, eventuali obiezioni ed opinioni contrarie non reggeranno all’impatto con la sua produzione fotografica, sfaldandosi in irrisori cumuli polverosi condannati a scivolare nelle tenebre della dimenticanza.

Le motivazioni validanti, che invece è doveroso reperire, giacciono, magna pars, proprio in Invisibile: qui, dedizione e devozione, in un rapporto di risonanza imperitura e ripercussione reciproca, permettono l’incanto di un avvenimento rivelatorio, di sicuro, tangente il sorprendente e l’inatteso. 

Periegeta e scopritore, Fontana,’ con questa recente pubblicazione, ci permettere di addentrarci fin nelle viscere della sua opera, con generosità e chiarezza; ci guida, avulso da sotterfugi, alieno da scappatoie, estraneo a escamotages approssimativi, al risveglio delle eccezionali intermittenze luminose delle sue fulgide costellazioni iconografiche; ci conduce al cospetto di un’integerrima onestà percepibile sia nelle fotografie, spalancate e disposte per noi in un’offerta copiosa, che nell’allegato taccuino, silloge di 33 pensieri sulla fotografia. Ogni scatto (in una scrupolosa cernita effettuata da lui stesso) e ogni apoftegma (da lui scritto) racchiudono un’adunanza concentrica di significato, a voluta scoperchiante e spirale vorticosa, ulteriori manifestazioni di veridicità

e lealtà che solo Fontana, umano artifex, può donarci. 

Un inconfutabile manifesto visionario segna l’abbandono del convenzionale e sancisce l’invenzione compositiva, riformulata in lampi illustrativi, rivoluzionari e, persino, sovvertitori consapevoli dell’humus culturale, ideologico, documentabile in cui si forma Fontana: nel terzo aforisma sostiene infatti che “in fotografia la rivolta si esprime e si conferma nella creatività” mentre nel diciassettesimo si spinge coraggiosamente avanti affermando che “la creatività è un pensiero avventuroso che fa a pezzi le regole” e, addirittura, nel venticinquesimo, che “distruzione equivale a creatività” (tutte le citazioni, dove non indicato diversamente, sono tratte dai 33 pensieri sulla fotografia).

Se “lo scopo dell’arte è di rendere visibile l’invisibile”, ecco che il titolo medesimo, nel solco convalidato da queste sue asseverazioni, è già di per sé assai efficace, inserendosi al contempo perfettamente in quell’ironia sottesa e sottilmente provocatoria che lo contraddistingue. 

Tra le prime determinanti specificità artistiche, inscindibili delle peculiarità formali, in lui rinveniamo la capacità di cogliere, delimitando l’inquadratura entro margini ineccepibili per geometria e proporzioni, ciò che solitamente non si rintraccia in fotografia; la destrezza nel portare alla luce una successione prolifica ed alimentata costantemente nel tempo di immagini altre, distinte e distintive; l’edificazione di un’abile sintesi, in progressione generante, ancorata saldamente all’unitarietà nella convergenza linguistica e stilistica. 

Le apparizioni eloquenti rendono così l’invisibile effettivo e fattuale: la realtà tutta, di fronte al suo obiettivo, diventa irrimediabilmente fotogenica, anzi straordinariamente espressiva. 

In prosieguo, nobile ed ordinario, idilliaco ed usitato, comune ed inconsueto, desueto ed elegante, trovano riparo, alternanza, ragion d’essere e germogliano vicendevolmente. 

La coabitazione di concretezza e abstractio cogitationis confluiscono nell’oculus insaziabile che procede, vigile ed edace, nell’universo materico individuandone le porzioni significanti senza alcuno spreco irrito.

Una circoscrizione demarcante la riduzione sistematica e rapace dell’essenziale, porta a grafie visive intrise, in superficie et infra, di capienti contenuti dal notabile rilievo: in loro fissità e mutamento convivono senza alterchi in quanto l’attimo carpito detiene il racconto del passato, fissa il presente e si direziona al futuro; la quiete e l’ardimento si tendono la mano in movenze che si distendono e si ritraggono in un’intrepida andatura.

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Sebbene la sua fotografia sia unica, incomparabile e irripetibile, votata ad un modus operandi altrettanto inimitabile, dalle primissime immagini risalenti agli anni ’60 a quelle attuali, non ha mai lambito la facile ripetizione, la sottomessa replicazione e tantomeno la servizievole pedanteria.

Convinto del fatto che “non si fotografa ciò che esiste ma esiste quello che si fotografa”, che si debba “fotografare quello che si pensa per significare quello che vedi” e che “la fotografia è ciò che facciamo di essa”, poiché “ciò che fotografiamo non è quello che vediamo, ma che siamo”, Fontana non annoia, non smette di stupire e di forgiare il proprio mondo scoprendolo nel mondo.

È un autentico demiurgo, un vero artefice, un progressista legislatore iconico, cosciente e coscienzioso, fondatore di innovative e rivoluzionarie leggi della visione alle quali si attiene nel pensiero e nella pratica operativa, che non è mai la semplicistica trascrizione dello spazio, ma la sua perspicace trasformazione.

Dopo questa estesa digressione è necessario addentrarsi nelle sue immagini per afferrarne la singolare straordinarietà e riuscire a capacitarsene.

Si è detto prima della rinuncia all’esclusiva funzione descrittiva e della trasformazione dell’esterno in spazio interiore, della creazione di una grafia riconoscibile senza possibilità di errore e dell’autonomia determinante dalle correnti pregresse e contestuali.

Cosa vediamo grazie e con Fontana? Qual’è dunque l’esplicitazione iconografica? 

L’artista, pur rimettendosi continuamente in gioco e sondando plurime possibilità di variazione, ci consente di individuare alcuni elementi decisivi nella sua infaticabile produzione, principiando dai confini sempre dinamici, dal piacere impegnato nella sperimentazione, dalla sofisticata abilità nella padronanza dei mezzi tecnici e nei sorprendenti risultati, intoccabili per le immutate intenzioni nell’emergente connessione, intima ed emotiva, sancita tra l’osservatore e il campo d’osservazione.

L’uso di obiettivi a focale lunga, funzionali all’appiattimento prospettico, il ritaglio di sezioni zonali dei soggetti individuati, insieme ai processi attuati in camera oscura, portano a dominanti cromatiche marcate, dissolvenza voluta della nitidezza iniziale e ad una compattezza aggrumata sia nei toni che dei piani. 

Pertanto, la monade eletta fondamento costitutivo del firmamento delineato, è il rapporto tra forma e colore quale nucleo puro, scandagliato in ogni immaginabile declinazione estetica, sperimentale, emotiva e creativa. E specialmente quando questa relazione tocca gradi di astrazione postremi, egli consegna al fruitore un’immagine che sta a noi non solo intrepretare, ma bensì completare, in veste co-autoriale: non si tratta di mostrare ciò che è evidente, rivelando il realistico, ma di filtrare, depurare, setacciare la totalità che ci circonda per rinvenirne le elevate valenze simboliche, personali, metaforiche. 

Il colore, saturo e preminente, denso e corposo, materico al pari della resa pittorica, colpisce immantinente qualunque sia la contingenza simultanea.

Le numerose immagini di strade, contraddistinte dalle tonalità variegate dei grigi porosi dell’asfalto, inframmezzate dalla segnaletica (con le sue rette bianche, rosse e gialle), cosparse dalle forme tondeggianti dei tombini, disseminate da quelle allungate dai cartelli, interrotte dai marciapiedi, frammentate dai segni lasciati per il passaggio delle auto o per la manutenzione, danno vita a strutturate disposizioni, nelle quali ogni dettaglio è dotato di eccezionale valore semantico (si vedano ad esempio Modena, 1960 e 1970; Varsavia, 1976; New York, 1979; Los Angeles, 2008). Se le autostrade, con i veicoli in corsa, sono soggette ad una riduzione in striature sfumate o uniformi nel susseguirsi di un composito assetto orizzontale nella loro disposizione (come in Autostrada, 1971 e 1975), le automobili (nei particolari delle ruote, dei finestrini, dei vetri del parabrezza, dei fanali o delle linee sinuose della carrozzeria) acquisiscono una lucidità palpabile e strabiliante nella carica dei rosa accesi, dei gialli vividi e dei turchesi brillanti (Auto, 1965, 1971 e 1972; Modena, 1971), mentre le immaginifiche e molteplici vedute marine si dipanano tra gli identificabili granelli di sabbia, segnati o meno dalle tracce dei passanti, l’avvicendamento conflittuale dello scontro tra la luce abbagliante e l’ombra inghiottente, la successione di sgargianti fabbricati balneari e l’orizzonte fissato dal blu ipnotico del mare e dall’azzurro seducente del cielo (Riccione 1960, 1964, 1965, 1973). L’acme si riscontra in Tirreno del 1980, in cui la ripresa è simmetricamente divisa in due segmenti orizzontali, differenti tra loro eppur conviventi nell’opposizione risolvente: la metà di sinistra è ostruita dall’uniformità muraria di un rosso puniceo, mentre la metà di destra spalanca le ariose tonalità delle onde e dell’empireo in un respiro pacificante di un litorale convertito in adito meditativo.

Dalla fine degli anni ’70, la figura umana, rarissima nei decenni precedenti, diventa presente e insieme presenza con una validità puntuale quale elemento costituente del vedutismo urbano come nel celebre scatto Gente del 1979: il cielo larvato da un azzurro inquinato, gli edifici industriali e commerciali, enormi e disordinati di una città americana, occupano la parte alta; il blu scuro di un ponte taglia in due la scena, divenendone la cesura orizzontale; un gruppo di persone, distratte ed incuranti nell’essere ritratte, funge da chiusura in basso e contraltare compositivo, nel loro stare seduti in attesa della metropolitana, identificabile nella sfocata scritta subway posta in primo piano. 

In altri frangenti invece è il nudo, topos talora conformemente consunto e talvolta utilizzato con assiduità usurante nella storia delle arti, ad essere ri/proposto con modalità ri/formulate. 

Nella serie Nudi del 1973-74, la visione caduca di un happening avanguardistico nei corpi dissolti in profili netti e campiture sature, un’atmosfera sine tempore enfatizzata dalla carenza di contesto situazionale, riconducono anche la nudità alla corrispondenza fondante tra forma e colore. 

Lo stesso accade per le metropoli e la natura, intesa come ruralità, entrambe enumerabili tra i soggetti che maggiormente hanno contribuito alla riconoscibilità indubitabile di Fontana. L’incontro con l’enormità delle megalopoli statunitensi (New York, Los Angeles, San Francisco, Dallas), portano l’artista a confrontarsi, immediatamente e prontamente, con connotati inconosciuti ma fortemente caratterizzanti: dall’imponenza dimensionale gigantesca, alla divergenza contrastante tra attualità e tradizione, dalla caoticità di un’urbanizzazione intricata alle confuse giustapposizioni edilizie, dalle luci chiassose fino agli ambienti iper ingombrati nell’addobbo ingarbugliato di manifesti pubblicitari e insegne promozionali. Si dischiude l’ennesima tenzone che, oltre a confluire in alcuni libri (tra i quali Cento volte America, 1989 e Sorpresi dalla luce americana, 1999), genera istantanee strepitose all’interno delle quali il livellamento prospettico, nell’inclusione di tutti i tratti appena enumerati, unitamente al rinnovellamento relazionale tra sagome formali e gamme cromatiche culminano in stupefacenti risoluzioni compositive (New York e San Francisco 1979; Los Angeles 1990).

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Celeberrime inoltre alcune immagini realizzate in città europee (Amburgo, Francoforte, Arles, Ibiza, Berlino, Varsavia), tra le quali Parigi del 1979 raggiunge meritatamente l’apice: il retro di un palazzo (in restauro o ricostruzione) mostra la ripartizione di pareti murarie segmentate in porzioni di mattoni colorati, tiranti metallici arrugginiti e coperture plastiche trasparenti, per lo più a brandelli, a guisa di involucro parziale di lacerti costruttivi.

Indimenticabili, per l’inscalfibile impressione che generano in chi guarda, sono i paesaggi scattati in Puglia tra il 1975 e 1978 (e più recentemente nel 2015), ma a questi se ne dovrebbero aggiungere molti altri. Nel caso di quelli segnalati, il contatto del procedimento di interiorizzazione porta, in concomitanza orbitante ma indivisibile, la semplificazione massima nella resa finale derivante da un personalissimo ed abissale assorbimento analitico. Il ventesimo pensiero lo esplicita con disinvoltura: “quando fotografo un paesaggio è il paesaggio che entra dentro di me, si fa l’autoritratto, così che anch’io diventi un paesaggio, per esprimermi al meglio”. 

Il colore, snellito pur nell’aumento addensante, è concentrato nel dominio compatto e iper saturante del verde erba dei prati, dei gialli fluorescenti delle colline coltivate o in fiore e, nel segmento superiore, dal celeste leggiadro o dal blu intenso del cielo, quasi a lambire l’IKB di Yves Klein. Se l’astrazione è totalizzante, la presa emozionale cresce e si sviluppa nell’esplosione di sorpresa e incredulità. Come per il nudo e l’urbano, Fontana non ha timore nel ribaltare gli statuti abituali, siano essi antecedenti o concomitanti: di nuovo e maggiormente, la pozione che allontana il descrittivismo apparente risiede nell’appiattimento dovuto alla focale lunga, nella liaison rintracciata, reperita e reiterata tra gli atomi intemerati del suo vedere. 

Precipitano e zampillano, in una spolverata miracolosa per la sconvolgente attinenza, alcune delle riflessioni di Wassily Kandinsky in Lo spirituale nell’arte, nel suo sondare con esattezza, sistematicità e visionarietà, in due capitoli, sia l’effetto del colore che il linguaggio delle forme e dei colori. Indagando gli effetti fisici e psichici del colore, ne evidenzia “la forza che fa emozionare l’anima” e il suo essere “la via primaria” per raggiungerla. Insomma per l’artista russo e, sine dubio per Fontana, “il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima”, o meglio “l’armonia dei colori è fondata su un solo principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore”. Parimenti, anche la forma “ha un suono interiore”, essendo “un essere spirituale” e “l’armonia delle forme è fondata su un solo principio: l’efficace contatto con l’anima”. Sono sempre le costanti (colore, forma e anima) rivenute nelle scritture dal e del fotografo, ad essere ribadite e, ora, ricorrenti in un’incredibile sincronicità esemplare nelle enumerate citazioni.

Questo consente alla sua opera di colpire con la forza trafiggente che emana: dietro l’apparente, si avverte nitidamente l’impegno meditato, la ricerca di senso e il movimento di idee che soltanto una mente curiosa e positivamente irrequieta, perché in cerca perenne, continua e continuerà a cercare. E, per nostra fortuna, a trovare ed elargire in un grandioso florilegio riformista.

Aprendo un varco nell’altrove, esso diviene destinazione, immanenza e ri/partenza, nel quale 

l’aspettare e l’aspettarsi, l’incontrare e l’incontrarsi, lo smarrirsi e il ritrovarsi, formano dicotomie non antagoniste, ma coesistenti e risolutive in una possibile risposta: l’unico riscontro per continuare ad interrogarsi, nel proseguire non come opzione, ma come decisione teleologica.

Da lavoratore instancabile e indefesso, l’adiacenza con la società liquida, nell’accezione teorizzata dal sociologo e filoso polacco Zygmunt Bauman, non lo fa ritrarre anzi lo sprona ad avviare un addizionale e stimolante confronto impavido: non si tratta di lenire le criticità o occultarne le complessità, ma semmai di inserirsi consapevolmente al loro interno dandone una testimonianza leale e condotta con l’usuale rettitudine.

Fontana individua un salvataggio dal temibile disorientamento, rinvenendo l’altrove nel mondo, il mondo dell’altrove e l’altrove in noi. Ma, così facendo, scopre che proprio nell’altrove si è prossimi al luogo con il quale si familiarizza come fosse casa e nell’alterità si è più che mai vicini alla dimora certa dell’io: una sorta di paradosso comprovato nel quale il rammarico cede il passo alla gioia e si avverte la contentezza appagante per aver compiuto una peregrinazione geografica, ma primariamente interiore.

L’esistenza di Franco Fontana, inseparabile dalla sua ars, si rispecchiano in questo corso evolutivo.

Nato a Modena nel 1933, dove tutt’ora risiede e lavora, si avvicina alla fotografia negli anni Sessanta frequentando i circoli amatoriali modenesi. Quel decennio combacia con un momento d’intenso fermento culturale, responsabile dell’avvio di un radicale cambiamento verso i modelli consolidati e di un impulso artistico che ravvisa inedite possibilità d’azione sull’immagine.

In fotografia, si assiste alla crisi dell’impronta neorealistica e al rifiuto dell’estetica precedente, percepita come imposizione dispotica e intollerabilmente marchiata dall’obsoleta tutela conservativa. Proprio a Modena, nelle immediate vicinanze ideologiche, si forma un gruppo di artisti al cui interno si possono ricordare Claudio Parmiggiani, Franco Guerzoni, Carlo Cremaschi, Franco Vaccari e Luigi Ghirri. Sebbene Fontana non ne sia mai stato parte integrante, è attento alle loro idee e, assorbendole, esse diventano fertili per il terreno sul quale poi sarebbe cresciuta la sua ricerca in maniera autonoma. 

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Invece, il tentativo di ricostruire dettagliatamente i successi raccolti in decenni di carriera comporterebbe una lista infinita, e mai esaustiva, di mostre, premi, pubblicazioni che hanno portato Fontana ad essere identificato come uno dei massimi maestri della fotografia d’arte contemporanea. Basti pensare che le sue opere sono nelle più importanti collezioni museali nazionali ed internazionali (tra le quali la MEP di Parigi; il Museum of Modern Art di San Francisco; il Pushkin Museum di Mosca; lo Stedelijk Museum di Amsterdam; il Metropolitan Museum di Tokyo; il Victoria & Albert Museum di Londra), che ha tenuto più di 400 esposizioni personali, innumerevoli collettive, collaborazioni con magazine e realizzazioni di campagne pubblicitarie. 

Eppure, con la stessa passione caratterizzante, ha mantenuto strettamente un legame durevole, resistente e indissolubile con la città natale, la sua amata Modena, nella quale continua a vivere, lavorare e ad esporre con frequenza.

Se “fotografare è un atto di conoscenza” ed “è possedere”, ecco allora che Invisibile si prospetta effettivamente il libro ideale per chi già conosce il suo lavoro, per chi vi si avvicina per la prima volta o per chi vuole approfondirlo ulteriormente: con accoglienza e completezza, riflette ed ospita anch’esso l’indole dell’artista. Perciò, conviene ora soffermarsi ed addentrarsi sul prodotto finito e delucidare il perché sia realmente un supporto indispensabile. 

Editorialmente, stilisticamente e graficamente s’inserisce a perfezione nell’itinerario (linguistico, espressivo e creativo) tracciato da Fontana per il riguardo zelante ai dettagli, la scelta dei colori, la successione delle immagini e la loro impaginazione, l’uso di carte diverse selezionate ad hoc per la migliore resa possibile in fase di stampa. 

La rigida copertina chiara, priva di inutili fronzoli, è impreziosita dal titolo, dal nome dell’autore e della casa editrice impressi con un verde deciso, il quale per intensità richiama sia la cromia scrittoria e l’ardimento compositivo dell’autore, che la fotografia incastonata su di essa. 

Nello scatto verticale Italia, 1968 lo stesso verde ne occupa quasi i due terzi grazie al tessuto che, come un sipario, scende o sale per presentare agli astanti il giallo esuberante di un’auto immobile sull’asfalto (della quale vediamo le ruote, nella parte bassa e laterale della carrozzeria). In una catena di rimandi inappuntabili, quel giallo riveste la copertina dei 33 pensieri sulla fotografia. Un carnet minuto, succinto, conciso, ma fondamentale per il contenuto sostanziale degli aforismi: è la voce narrante dei concetti espressi dall’artista, misura esatta del suo procedere e misurazione puntuale del suo perspicace avanzare.

In Invisibile, protagoniste indiscusse, supreme e preminenti sono le fotografie, la cui centralità non è inquinata da nulla e non viene minacciata neppure dalle didascalie che si trovano in chiusura. Comparendo nella loro loquace interezza e sulla base delle specificità di ognuna, si è deciso in che modo occupare e gestire lo spazio a disposizione in maniera determinante e consona. Consequenter, le si trova impresse a pagina intera o doppia, sul lato destro o sinistro, oppure nella sezione superiore generando, con tale alternanza, una galassia visiva incurante delle prescrizioni coercitive e rispettosa, unicamente e incorruttibilmente, di quelle coniate dall’artista. Lo sviluppo nasce, matura e si espande sul ritmo dettato dalle immagini e dalla loro consecutio che, pur nel risultare esauriente per i soggetti, non sono abbinate, accoppiate o associate per un’approssimativa affinità. L’andamento che ne risulta è intrepido e, ancora una volta, speculare della sola volizione autoriale, attinente nella realizzazione, alle “fonti dell’arte”, identificate in “entusiasmo, ispirazione e immaginazione”.

Doveroso è segnalare la direzione artistica di Bunker che si è occupato inoltre dell’impeccabile book design con estrema attenzione e cura, immediatamente percepibili nel volume, edito da Lazy Dog Press. Casa editrice indipendente, nata a Milano nel 2012, grazie anche al sodalizio con lo studio modenese, propone un catalogo raffinatissimo, di cui Invisibile è una prova evidente.

Appropriandoci di alcune parole di Paul Valéry in Discorso sulla fotografia, “questi immensi risultati devono farci pensare con una certa emozione particolare ai tentativi ripetuti, ai molteplici esperimenti, all’abnegazione e alla costanza degli inventori”. Da eccellente ed accorto artigiano, Fontana è pienamente un inventore per la capacità di rinnovarsi continuamente e per l’essere in grado di circondarsi di talentuosi aiutanti, alcuni dei quali sono appena stati nominati.

Se da Klee e Kandinsky abbiamo iniziato a reperire le tendenze artistiche e le riflessioni di cui l’artista si è nutrito affinando la sua visione, pur mantenendo sempre la ribadita autonomia stilistica, si possono menzionare correnti come l’espressionismo astratto, il minimalismo, l’arte povera, e rinvenire ulteriori riferimenti in Io sono l’invisibile, l’unico testo presente, recante l’autorevole firma di Lorenzo Respi, profondo conoscitore del lavoro di Fontana e curatore di Invisibile. Nello scritto (brillante, dettagliato, fruibile e in simbiosi con il volume), il critico enumera con motivazioni pregnanti, sapienti e pertinenti, la “cultura visuale” di Moholy-Nagy “ossia un processo di formazione estetica dell’uomo moderno e di educazione dello sguardo”; prosegue con l’Impressionismo e il De Stijl, “passando per la Pop Art e l’Informale, fino al Nouveau Réalisme e alla Land Art”; inserisce, a corollario esplicativo, opere di Richard Hamilton, Piet Mondrian, Georges Seurat, Édouard Manet, Paul Klee, Alberto Burri, Christo & Jeanne-Claude per ribadire la vastità, la complessità e la solidità della cultura visiva di Fontana.

Uomo e artista, fedele alle proprie origini, alla propria formazione, e indiscutibilmente alla propria fotografia cioè a se stesso, Fontana non si è mai tradito e non ci ha mai traditi: riuscendo a comunicare con l’interiorità, ha potuto comunicare l’interiorità

Ha continuato, con ostinazione vincente, come ricorda ancora Paul Klee, “nella direzione segnata dal palpito del suo cuore”. 

L’unica, anche per noi, che valga davvero la pena seguire. Anzi in/seguire.

Perché se i suoi paesaggi interiori parlano anzitutto a e di lui, parlano in definitiva a e di noi.

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