Carmelo Anthony: quant’è difficile nascere neri in Usa
Top

Carmelo Anthony: quant’è difficile nascere neri in Usa

Dove non c’è promessa del domani è molto più e, per svariati motivi, molto meno di un’autobiografia. La storia Carmelo Anthony

Carmelo Anthony: quant’è difficile nascere neri in Usa
Carmelo Anthony
Preroll

globalist Modifica articolo

28 Gennaio 2023 - 19.39


ATF

di Rock Reynolds

Projects. Progetti. Un termine neutro, anonimo, non certo minaccioso se non proprio rassicurante, indicante, nell’universo a stelle e strisce, un quartiere di edilizia popolare sostenuto da finanziamenti pubblici e abitato da famiglie a basso reddito. Finito per diventare sinonimo di degrado e, di conseguenza, ricettacolo della feccia etnicamente minoritaria, soprattutto quella dei neri e dei latinoamericani, non trasmette certamente buone vibrazioni in una conversazione. Della serie, “Ho sbagliato strada e sono finito nei projects”, “Non vorrai mica passare dai projects”, “Mi raccomando, figliolo, che non ti venga in mente di avventurarti nei projects”.

Decine di film polizieschi americani ci hanno mostrato l’aria minacciosa di questi casermoni, blocchi di cemento senza forma e senz’anima, alveari di degrado, spesso circondati da recinzioni di filo di ferro che fanno tanto carcere e affiancati da malconci campetti da basket coi canestri che non vedono una retina dalla settimana della creazione. Che persino Dio abbia rifuggito i projects e abbia deciso che era inutile darsene pena? Tanto, di sicuro, qualche buontempone quelle retine se le sarebbe portate a casa in men che non si dica.

Il paradosso è che è proprio in quei quartieri stuprati dalla presenza permanente, stratificata e quasi normalizzata delle droghe pesanti e sfregiati dalla violenza delle gang che con quelle droghe fanno lucrosi affari che i ragazzi cercano una vita normale e, magari, se mostrano una spiccata propensione per questa o quella professione o un talento ancora da sbocciare per un’arte o per uno sport, trovano un mentore o, quantomeno, protezione. Talvolta, le spalle larghe che gli fanno schermo dalle brutture della quotidianità e che li ammoniscono sull’ineluttabilità di una delle uniche due strade percorribili – la legalità attraverso l’istruzione e un lavoro onesto, oppure il crimine – appartengono a capibanda “illuminati”, persone che hanno perso la speranza per se stesse ma non per qualche promettente giovane della comunità.  

C’è quasi sempre un fratello o un cugino o un amico che si mette nei guai con la giustizia o, peggio ancora, con una band rivale, oppure che fa uno sgarro a uno spacciatore o esce con la ragazza sbagliata. Il film He got game di Spike Lee la dice lunga: per rendere più credibile la sua storia, ha pensato bene di far recitare la parte principale, una promessa della pallacanestro che ha il padre in galera e che vive in un quartiere difficile, a una vera stella del basket, l’afroamericano Ray Allen, al tempo astro dei Milwaukee Bucks. La solita storia del difficile rapporto tra padre e figlio? Forse, ma non banale.

Leggi anche:  La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane

E certo banali non sono le parole di Carmelo Anthony, a cui è sempre mancato qualcosa per diventare il giocatore senza tempo che il suo fisico e, soprattutto, la sua tecnica sopraffina per un certo periodo hanno lasciato intendere che sarebbe stato. Basta vederlo scoccare il suo iconico tiro in sospensione: un gesto atletico sublime, eseguito con una naturalità da lasciare a bocca aperta. La sua è stata ed è, comunque, una carriera di tutto rispetto, con un titolo NCAA vinto da assoluto protagonista nelle file dell’università di Syracuse nel 2003, quasi vent’anni di onorata carriera nell’NBA (di cui è il nono marcatore di sempre) e quattro partecipazioni consecutive alle Olimpiadi con un bronzo e tre ori conquistati insieme alla nazionale USA. Coetaneo di LeBron James, condivide con “il Predestinato” un’infanzia non semplicissima, anche se, a differenza di James, “Melo” come viene spesso affettuosamente chiamato, ha avuto un background meno complicato. Ma anche Carmelo Anthony di fatto non ha conosciuto suo padre, morto quando lui aveva due anni. L’assenza di una vera figura paterna, non certo compensata dalla presenza di un patrigno a sua volta problematico e non particolarmente affettuoso nei suoi confronti, è un altro tratto che lo accomuna a LeBron, con il quale ha stretto una salda amicizia all’alba delle loro carriere. Non credo sia un caso che entrambi abbiano deciso di consegnare alla storia un libro di memorie, soffermandosi soprattutto sulle difficoltà dell’adolescenza e indicando nella pallacanestro lo sport che li ha strappati definitivamente dalla strada per proiettarli verso la rinascita spirituale e l’affrancamento sociale. Lasciamo perdere l’idea salvifica del successo strappato coi denti e l’idea calvinista della predestinazione. Lasciamo perdere pure il concetto fondante della mentalità a stelle e strisce, ovvero la forza di volontà dell’individuo che ha la meglio su ogni tipo di avversità e ostacoli, sorretto com’è dalla benevola mano di Dio.

Leggi anche:  La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane

Dove non c’è promessa del domani (66THAND2ND, traduzione di Lorenzo Vetta, pagg 216, euro 19) è molto più e, per svariati motivi, molto meno di un’autobiografia. Carmelo Anthony, assistito da D. Watkins, per scelta e con un’operazione commerciale quasi suicida, trascura la sua quasi ventennale carriera nell’NBA, relegando l’esperienza tra i professionisti alle poche pagine finali e preferendo concentrarsi sugli anni della crescita, prima in un quartiere a maggioranza afroamericana di Brooklyn e poi a Baltimora. È anche in questo autogol commerciale che si sostanzia il grande merito del suo libro. Va detto: questo non è un volume destinato unicamente agli appassionati di pallacanestro. È un libro che si legge a tratti come un romanzo di formazione nel quale gli ostacoli drammatici sono reali come reali sono le pipe per fumare il crack, le pistole che spuntano (e spesso sparano) alla prima provocazione e le pose da smargiassi che fanno tanto video Hip-Hop.

A Red Hook, il quartiere di Brooklyn in cui un giovanissimo Melo muove i primi passi, “avevano tutti lo stesso colore della pelle, al massimo con qualche differenza sfumata, e io mi sono sempre chiesto perché fosse così”. Nascere neri può davvero essere una maledizione. Tanti americani di colore che si sono fatti una posizione nello sport, nello spettacolo e persino nella politica non smettono mai di testimoniarlo. Nascere neri preclude molte strade. Nascere neri significa scuole più scarse, servizi sanitari più scarsi, posti di lavoro più scarsi, stipendi più bassi, pericoli maggiori. Come quello di essere maltrattati dalla polizia, talvolta assassinati perché, si sa, un nero potrebbe essere armato e malintenzionato e, dunque, per togliersi ogni dubbio, la polizia spara prima. Per il giovane Carmelo Anthony, le sparatorie nel quartiere sono all’ordine del giorno, un elemento talmente normale della quotidianità che, per continuare nel proprio tran tran, basta alzare il volume dello stereo e tenersi lontani dalle finestre. Ma, spesso, in quei quartieri la morte e la violenza delle gang vengono direttamente a casa tua e, solitamente, non bussano. Il dolore per la morte violenta del cugino Luck, quasi un fratello nella famiglia allargata di Melo, è una cicatrice che la star dell’NBA fatica a celare, anche perché la società del ghetto non ammette debolezze in pubblico. Ecco spiegati certi atteggiamenti che stridono con la povertà da quarto mondo di certi nuclei urbani. Come dice Melo, “se mai vi capitasse di sentire qualcuno giudicare male un ragazzo delle case popolari vestito con abiti costosi dalla testa ai piedi, sappiate che forse è l’unica maniera che ha per sentirsi bene”.

Leggi anche:  La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane

È in quel tipo di ambiente che il giovane Melo deve crescere e diventare uomo prima del tempo. Il basket, certo, lo aiuta, ma non basta neppure quello: “Ero depresso in un’epoca in cui la depressione non era di moda, almeno non nella mia comunità. Inutile mentire, mi sarebbe servito parlare con qualcuno… Nemmeno a casa parlavo mai del mio dolore”.

Leggete Dove non c’è promessa del domani e poi, magari, cercate una storia di Angie Thomas, romanziera e cantante rap del Mississippi. La Thomas meriterebbe maggiori attenzioni, soprattutto qui da noi, perché i suoi due romanzi, The Hate U Give. Il coraggio della verità (Gunti) e Concrete Rose (Rizzoli) sono uno spaccato realistico e commovente dell’universo giovanile afroamericano. Avrete così un memoir e un romanzo, un punto di vista maschile e uno femminile, accomunati da una base comune: l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento razziale, due elementi che insieme hanno sempre generato disastri.

Native

Articoli correlati