Eugenio Ercolani: memoria cinematografica come forma d’arte e professionalità
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Eugenio Ercolani: memoria cinematografica come forma d’arte e professionalità

Armato di cinepresa, il sorriso composto e i modi signorili, Ercolani entra nelle case di venerandi cineasti e ne raccoglie i preziosi ricordi

Eugenio Ercolani: memoria cinematografica come forma d’arte e professionalità
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

3 Gennaio 2023 - 17.56


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Recuperare e trasmettere il sapere acquisito prima che svanisca in un irrimediabile oblio è elemento fondante la civiltà umana. Perdere l’immenso bagaglio di esperienze compiute da generazioni di individui significa depauperare un presente già povero, minarne il futuro, defraudare i giovani di oggi e di domani di preziose conoscenze.

Eugenio Ercolani, regista, operatore, produttore, proveniente da una famiglia che al cinema ha dato tanto, ha scelto di fare del recupero della memoria il suo lavoro, assecondando una passione e al contempo creando una figura professionale. Ercolani è impegnato da anni nella raccolta di racconti orali di artisti e tecnici del cinema italiano, testimoni di una floridissima epoca dell’arte, della cultura e dell’industria italiana oggi inimmaginabile. Armato di cinepresa, il sorriso composto e i modi signorili entra nelle case di venerandi e non di rado dimenticati registi, attori, sceneggiatori, scenografi, musicisti, fotografi e quant’altro, stabilisce con loro un contatto umano e ne convoglia i preziosi ricordi in libri, documentari e negli extra che arricchiscono i film editi in DVD Blu-ray. Lo abbiamo incontrato e ne è uscita un’istruttiva chiacchierata.

Come nasce in te la passione per il cinema?

L’ho avuta da sempre. Ho abbandonato gli studi per dedicarmi al cinema. Mi sono iscritto alla London Film Accademy, mi sono diplomato e ho iniziato a lavorare come aiuto regista. A Londra sono rimasto più di quattro anni, è stata un’esperienza bella e formativa, ma poi faccio l’errore strategico di tornare in Italia. Ho dovuto ricominciare, pensavo ingenuamente di poter mettere a frutto il sapere accumulato in Inghilterra, su set anche di un certo livello, come primo o secondo assistente alla regia in film, corti, video musicali, televisione. Ma qui non avevo contatti, è stata dura. Sono ripartito come assistente in produzioni più grosse o come aiuto in altre più piccole, nel frattempo scrivevo di cinema, ho collaborato per otto anni con la rivista “Nocturno”, ma anche con altre testate, “Taxi Drivers’”, “Cineforum”, ho scritto un libro pubblicato in inglese che raccoglie interviste a cineasti italiani di genere, Darkening the Italian Screen, un secondo, a registi e tecnici, è appena uscito.

Come hai cominciato l’attività di produttore e realizzatore di extra per film in DVD Blu-ray?

Per caso, tramite un amico entro in contatto con un produttore tedesco che stava aprendo un’etichetta home video. L’etichetta non esiste più, si chiamava Cinestrange Extreme, realizzai gli extra di American risciò, La polizia è sconfitta, Mangiati vivi. Pian piano mi hanno contattato altre etichette, e adesso lavoro come producer per una ventina e più, soprattutto per il mercato di Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. Al momento ho in varie fasi di lavorazione gli extra per una ventina di film. Ne ho realizzati tanti, circa 190 featurette. Non sono l’unico in Italia a fare questo lavoro, ma da un paio di anni forse sono quello che lavora di più.

Tutti film di produzioni italiane?

Sì, ma escono per etichette estere. Purtroppo, il mercato dell’home video nel nostro paese è molto limitato, non è un’industria. Dietro c’è tutto un ciclo produttivo: bisogna acquistare i diritti per lo sfruttamento home video del mercato in questione, poi c’è il restauro del film, il mixaggio, la color, il cofanetto, la grafica, i contenuti extra, i commenti audio, il booklet, tutto pagato, all’estero non è concepito il lavoro gratuito. Quindi sono prodotti costosi, ma hanno un grande ritorno economico, il mercato è florido. Nascono di continuo nuove etichette, per una di queste, la Treasured Films, ho fatto gli extra per L’ultimo cacciatore di Margheriti. Per altre a breve usciranno in 4K Virus infernale dei morti viventiI sopravvissuti della città mortaTentacoli, La frusta e il corpo, Così dolce così perversa.

Come si articola il tuo lavoro?

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Mi contattano per un film, io propongo dei contenuti speciali, ormai conosco più o meno i budget di ogni etichetta e cosa si aspettano. Mando un preventivo, se viene accettato si fa un contratto e si mettono in lavorazione. Coordino una serie di collaboratori, montatori, operatori, ho una mia squadra. Ho tre montatori, il lavoro è aumentato e i tempi sono ristretti, di solito ho un mese, un mese e mezzo.

A parte le interviste che altro tipo di contenuti realizzi?

Dei piccoli documentari, che costano ovviamente di più, sulle location, immagini di repertorio, anche se la base sono sempre le interviste. Ultimamente ho realizzato un paio di brevi documentari piuttosto interessanti, uno sugli anni di piombo per il Blue-ray inglese di La polizia accusa, il servizio segreto uccide di Sergio Martino, gli anni di piombo visti attraverso i polizieschi italiani. L’intervista primaria, bellissima, era a Francesco Biscione, che faceva parte della Commissione parlamentare sul caso Moro. Un altro invece per il cofanetto a tiratura limitata di Chi sei? di Ovidio Assonitis, per la Arrow, sull’esorcistico italiano, da Chi sei? a L’Anticristo L’Ossessa.

L’intervista è un’arte complessa. Hai messo a punto un metodo?

Seguo tre regole. Innanzitutto, capire che il protagonista non sei tu, ma l’intervistato. Devi scomparire, lasciarti prendere dal ritmo di ciò che ti racconta, questo comporta domande semplici e zero ego. La seconda regola è non incorporare la risposta nella domanda, cioè non far sì che l’intervistato se la cavi con un sì o no. Puoi sempre scavare di più, a “cipolla”, ma con domande semplici. Poi, mai porsi come un fan, che si rivolge con l’appellativo di Maestro. Nessuno vuole stare a parlare con un fan. Inizialmente può fargli piacere, ma alla lunga non va: vogliono una persona alla pari, seria, competente, preparata, non un fan. E poi l’ultima regola: lasciare le domande scomode alla fine. Una volta che ti sei portato l’intervista a casa, se hai delle domande che potrebbero indispettire le riservi alla fine. Io non parto dall’idea di dover diventare amico dell’intervistato, la nostra è una collaborazione lavorativa, adesso le interviste sono fatte da ragazzi che vogliono entrare in confidenza, diventare amici, ma no, tu sei lì per fare l’intervista. Poi può capitare di creare dei rapporti, a me è accaduto con tre persone soprattutto, uno era Franco Rossetti, a cui tenevo la mano quand’è morto. Lo intervistai per il mio primo libro in cui un capitolo era dedicato a lui. Era una persona stupenda, dissacrante, su YouTube gira un’intervista amatoriale che gli feci. Era davvero un amico. Un’altra persona con cui legai tantissimo è stato Giannetto De Rossi, l’effettista. Andammo anche in vacanza a Londra. Pure con Alberto De Martino legai molto, e adesso con Luc Merenda, un grande amico.

Da dove viene questa passione per la raccolta di testimonianze?

Mi piace questo lavoro: entro nelle case delle persone, nei loro salotti, negli studi, negli uffici, mi piace vedere questi piccoli mondi; quando lo fai a tamburo battente, ogni settimana, la cosa ti entra un po’ sottopelle e bisogna stare attenti, perché passi tantissimo tempo con persone molto anziane, che spesso stanno male, sei in contatto con la morte, ed è difficile non sentirsi a volte quasi un confessore. È un lavoro molto malinconico, sei testimone della morte lenta e inesorabile di generazioni che hanno fatto il cinema, di un’italianità che muore, di un modo di pensare, di parlare, di concepire i rapporti umani, di un pezzo di Novecento.

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Hai progetti particolari per il futuro?

Continuerò a fare extra, però sto tornando al cinema. Ho finito di girare un docufilm su Luc Merenda, nato da un’idea di Steve Della Casa, per il quale abbiamo avuto dei finanziamenti ministeriali. Non è un documentario classico, ha uno stile narrativo, s’intitola Pretendo l’inferno. Non è stato semplice, abbiamo coniugato due linguaggi profondamente diversi, quello del cinema e quello del documentario, la lavorazione è durata tre settimane, con una troupe di venti persone, trucco, lenti anamorfiche. Inizieremo la postproduzione i primi di gennaio, per aprile dovremmo avere il prodotto finito. Abbiamo girato al teatro Ghione, e tra le tante interviste c’è una chicca, la performance musicale di Guido e Maurizio De Angelis e di Luciano Michelini, che ha eseguito il tema principale di La polizia accusa il servizio segreto uccide e di La città gioca d’azzardo. I De Angelis hanno eseguito una canzone dal titolo “Blue Song”, composta per Milano trema la polizia vuole giustizia, nel film andò solo la versione strumentale, splendida. Quindi per la prima volta dopo cinquant’anni hanno cantato quel pezzo, riarrangiato, ed è uscita una cosa bellissima. Al Ghione abbiamo realizzato la parte fiction, abbiamo filmato degli incontri, per esempio con Castellari e Barilli. Luc è un amore, egocentrico, complicato, ma una delle persone più buone che abbia conosciuto. Tutti lo hanno adorato, un professionista pazzesco, sempre puntuale, pronto a girare.

Tu vieni da una famiglia con il cinema nel sangue. Quanto è stato importante questo imprinting?

Ho respirato cinema sin da bambino. Mia madre è la figlia di Giulio Petroni, ha lavorato come aiuto nel teatro, poi passò al cinema, prima come segretaria di edizione in Tepepa, girato dal padre, poi anche come aiuto e spesso anche interprete, visto che conosceva bene l’inglese e all’epoca giravano molti attori anglosassoni sui set italiani. Col padre ha fatto diversi altri film, ha lavorato con Fernando Di Leo, Romolo Guerrieri, Luciano Emmer, Mario Amendola, Marco Ferreri, e nei due film di Warhol Frankestein e Dracula. Mio nonno, Giulio Petroni, l’ho conosciuto bene, avevo 26-27 anni quando è morto, nel gennaio 2010. Il rapporto umano con lui era molto difficile, era una persona particolare, piuttosto anaffettiva, indipendente, solitaria, anche se poi amava la bella vita. Il nostro era un rapporto molto intellettuale, non tra nonno e nipote. Era un uomo nervoso, molto calmo esteriormente, ma spinto da un malessere che lo portava a distruggere e ricostruire, sia nella vita privata che nel lavoro; anche nel cinema ha avuto mille occasioni per fare salti incredibili, ma si è sempre limitato, è riuscito a fare quel che ha fatto nonostante se stesso, non grazie a se stesso, il che dimostra che aveva vero talento, perché ha fatto di tutto per non avere successo, e questo gli va riconosciuto. Come scrittore aveva delle intuizioni ma era mediocre, glielo dissi e mi cacciò di casa. Abbiamo litigato tanto, era un rapporto molto ostico. La memoria collettiva lo collega al western, ma ebbe grossi successi sia al botteghino che di critica dal ’59 al ’65, La centochilometri, I soliti rapinatori a Milano, I piaceri dello scapoloUna domenica d’estate, quasi tutti film corali. Inizia come critico d’arte, poi critico letterario, dopo di che entra nel cinema, è aiuto regista in Desiderio, firmato da Rossellini e Pagliero, quindi collaboratore alla regia di De Santis in Un marito per Anna Zaccheo con Silvana Pampanini, infine collaboratore alla sceneggiatura e documentarista. Era stato partigiano, aveva partecipato alle Quattro giornate di Napoli, fu paracadutato tre volte dietro le linee nemiche, si unì agli americani, ai partigiani, perse un fratello che era di stanza sulla nave da guerra Roma. Nella prima metà degli anni ’50 andò a Ceylon, l’attuale Sri Lanka, dove convinse il governo ad aprire la Ceylon Film Unit di cui diventò direttore, lì non esisteva una cinematografia autoctona, portò tecnici, operatori e direttori della fotografia e girò dei documentari, alcuni sono andati al Festival di Edimburgo nel 1955 e 1956, aprì un’attività di service, fece da consulente tecnico, da location manager per produzioni estere, americane o italiane che andavano a girare lì. Strinse amicizia con Arthur C. Clarke, che viveva laggiù, con Carol Reed che girava lì, lo aiutò sul piano tecnico-logistico. Poi tornò in Italia e realizzò dei documentari, uno vinse al Festival di Venezia. Nel 1959 pubblicò il primo romanzo per Feltrinelli, La città calda. Da documentarista ha girato il mondo, è stato in Israele, collaborò con Gillo Pontecorvo in coregia all’Isola di Man, andò in Irlanda. Sempre nel 1959 debuttò alla regia con La centochilometri e conobbe le persone che sarebbero state importanti nella sua vita, alcuni collaboratori, attori come Mario Carotenuto e Marisa Merlini, ma anche il compositore Armando Trovajoli, con cui in seguito farà tre film, e amici come Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa. Passò dalla commedia all’italiana al western, genere che gli era congeniale. Il primo, Da uomo a uomo, è il più conosciuto in America per via di Tarantino, le musiche sono di Morricone, con cui farà sei film, poi Tepepa, oggi considerato un cult, anche E per tetto un cielo di stelle è molto interessante, ancora di più lo è La notte dei serpenti, a cui teneva molto. Era molto prolifico, fece anche Caroselli, ne girò parecchi nella seconda metà degli anni Sessanta, e dal 1959 al 1969 fece un film all’anno. Anche nei ’70 ne girò diversi, e aprì una società di produzione, la Azalea Film. Voleva emanciparsi dai produttori, fare il cinema che gli piaceva, ma l’Azalea Film era una realtà piccola, all’inizio andò bene, ma era un pessimo amministratore finanziario e alla fine il giocattolo si ruppe. Comunque, era un bravo regista, forse sottovalutato sotto tanti punti di vista.

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Quali suoi insegnamenti ti porti dietro?

Molti da un punto di vista tecnico, come regista. Ma soprattutto da lui ho capito ciò che non voglio essere.

Immagine: Ercolani sul set con Luc Merenda. Foto di Rosalba Panaciulli.

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