Affascinante viaggio nella storia del cinema: Alberto Crespi la racconta in un libro con la levità di un cantastorie
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Affascinante viaggio nella storia del cinema: Alberto Crespi la racconta in un libro con la levità di un cantastorie

Non un saggio di critica cinematografica, ma una seducente narrazione di storie personali e collettive, ritratti di individui non di rado geniali, rappresentati in tutta la loro umanità. Con un'intervista all'autore

Affascinante viaggio nella storia del cinema: Alberto Crespi la racconta in un libro con la levità di un cantastorie
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

5 Novembre 2022 - 20.03


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Il cinema, si sa, ci ha cambiato la vita. In un modo o nell’altro, questa straordinaria “invenzione di Morel” ha invaso gli spazi sociali, psicologici, politici, antropologici, informando di sé la nostra realtà, il nostro immaginario. Come il teatro per millenni, ma con un impatto forse ancora maggiore, il cinematografo – così lo si chiamava un tempo – è divenuto lo specchio dei desideri, delle pulsioni, delle derive e degli approdi della specie umana.

Ognuno ha i suoi film prediletti, un intimo repertorio ove figurano quali sacre icone attori, registi, artisti a vario titolo, che non di rado diventa l’agone di scontri ideologici, rivendicazioni sociali, affermazioni identitarie, o più semplicemente un luogo onirico in cui sentirsi veramente appagati. Proprio per la sua universalità, non è impresa agevole raccontare in maniera interessante questo mondo, i suoi prodotti e i suoi artefici, poiché il rischio di generalizzazioni, banalizzazioni, voli pindarici è sempre dietro l’angolo. Alberto Crespi, invece, è riuscito a farlo con un libro che si legge d’un fiato, Short Cuts. Il cinema in 12 storie, edito da Laterza (pp. 416, 24 €).

L’architrave di questo suo racconto è un passaggio epocale che ha segnato indelebilmente la storia della settima arte e umana tout court (cinema ed evoluzione storica sono un binomio inscindibile): il biennio 1959-1960, “il momento decisivo in cui cinema classico e cinema moderno, o postmoderno, coesistono”. In quei 24 mesi che introducono un decennio rivoluzionario vengono girati un’impressionante serie di film che cambiano il modo di intendere il cinema e il suo approccio alla realtà, capolavori realizzati proprio nel mezzo del cammino della sua vicenda oggi più che secolare: da Un dollaro d’onore di Hawks, trionfo del cinema americano, a Fino all’ultimo respiro di Godard, che segna la nascita della Nouvelle Vague; da La dolce vita di Fellini a La grande guerra di Monicelli; da Psycho di Hitchcock a I magnifici sette di Sturges; da L’appartamento di Wilder a La bella addormentata nel bosco della Disney. E ancora: Nazarìn di Buñuel, Il mondo di Apu di Satyajit Ray, Historias de la revolución di Tomás Gutiérrez Alea, Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz.

Il volume si snoda dunque attraverso 12 “percorsi”, costellati però da intriganti diramazioni, bivi e ramificazioni lungo nuclei tematici, punti di partenza per un avvincente andirivieni nel tempo (poiché “la storia non si muove mai in linea retta”), dai Lumière (e persino prima) fino alle odierne piattaforme e serialità, esplorando geografie e culture anche altre da quelle occidentali: i film e le produzioni televisive analizzate sono ben 132.

Non siamo al cospetto di un classico saggio di critica cinematografica, con i suoi tecnicismi, gli idioletti per iniziati, ma di una seducente narrazione di storie personali e collettive, ritratti di individui non di rado geniali, rappresentati in tutta la loro umanità. Come spiega l’autore nei ringraziamenti, la struttura del racconto segue quella della trasmissione radiofonica Sei gradi, in onda ogni giorno su Radiotre Rai prima della celeberrima Hollywood Party: si rintracciano e si creano legami e rimandi fra generi e artisti lontani tra loro, una summa di itinerari culturali, di visioni, d’incontri e di letture – d’un vissuto intenso che travalica il mero scrivere e parlare di cinema. Il risultato somiglia molto a quel che l’autore si proponeva in fase di redazione: che il suo venisse considerato “il libro di un cantastorie”.

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Il “narratore” però si fa anche storico del cinema: batte come un segugio piste ormai cancellate dall’oblio in cerca di fonti e archetipi, recupera personaggi e lavori ignoti o dimenticati, chiama a raccolta eventi epocali, s’inerpica per sentieri letterari, drammaturgici, musicali, delle arti performative, sportivi (eccelse le pagine sul leggendario incontro di pugilato tra Muhammad Ali e George Foreman tenuto a Kinshasa la notte del 30 ottobre 1974 e dell’avventurosa storia di Quando eravamo re di Leon Gast), alla caparbia ricerca di tracce, nessi, rapporti: “questo libro va a caccia di relazioni”, si legge programmaticamente nell’introduzione. Ma a differenza dello storico puro (o almeno di un certo tipo di storico), da autentico innamorato del cinema qual è, Crespi tiene nel dovuto conto l’immaginario: riporta leggende, aneddoti ed episodi tramandati dall’oralità, seguendo l’idea di uno dei più grandi registi di sempre, John Ford, che nel finale di una sua magistrale opera, L’uomo che uccise Liberty Valance, mette in bocca al personaggio del giornalista la celebre frase: “Quando la leggenda diventa realtà, stampate la leggenda”. L’aneddotica, comunque suggestiva, non è mai però fine a se stessa, è sempre funzionale, come si diceva, al rinvenimento di legami sotterranei, fili rossi.

A tale ricca ermeneutica l’autore aggiunge un profondo bagaglio di conoscenze, l’esperienza umana maturata sul campo con i viaggi, le chiacchierate con i protagonisti, le frequentazioni di artisti che hanno fatto la storia di quest’ineffabile arte, il tutto reso con una prosa piana e lucida che rende ben godibile la lettura.

Siamo insomma di fronte ad un libro invero notevole, dove affiora a tratti una certa sentenziosità, un volume che potrà incontrare l’interesse dello studioso come del cultore, dell’appassionato e di chi sia animato da curiosità intellettuale. Se l’ambizione dell’autore era formulare “un’analisi quantistica della storia del cinema”, “rimettere in discussione i nostri concetti”, tentare “un’esplorazione di nuovi modi per pensare” la settima arte, creare “un affresco di tante ‘storie di cinema’, fatte di opere, di eventi, di sogni, di persone” – be’, il tentativo può dirsi certamente riuscito.

Abbiamo intervistato l’autore di Short Cuts, Alberto Crespi, critico cinematografico, autore e conduttore radiofonico e televisivo, direttore della storica rivista specialistica edita dal Centro Sperimentale di Cinematografia “Bianco e nero”, nonché direttore artistico di festival del cinema.

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Quanto è stato importante nella realizzazione di questo libro il coinvolgimento umano, l’aver conosciuto e frequentato artisti che hanno fatto la storia del cinema?

Era uno degli scopi “sotterranei” del libro. Considero un enorme privilegio l’aver conosciuto e frequentato alcuni giganti del nostro cinema, come Risi, Magni, Monicelli, Scola (per Fellini, che pure ho conosciuto, non posso ahimè usare la parola “frequentato”). Così come l’avere intervistato tantissimi cineasti stranieri, grazie alla frequentazione ormai quarantennale di festival come Cannes, Berlino e Venezia. Non volevo fare sfoggio delle mie conoscenze, ma volevo, quello sì, comunicare l’affetto per alcuni di loro e raccontarli al di là dei film, provando a far emergere la loro personalità. Troppi ne sono rimasti fuori, ovviamente.

L’idea di una storia “quantistica” del cinema deriva dalle suggestioni del libro Helgoland del fisico Carlo Rovelli, come indicato nell’introduzione, o ha anche altre radici?

Sarò sincero, non capisco nulla di scienza. Ma come tutte le cose che non capiamo, mi affascina enormemente. L’idea nasce esclusivamente dai due libri di Rovelli. Rovelli ha una caratteristica che io trovo straordinaria: scrive libri su argomenti difficilissimi ma riesce a farsi capire anche da analfabeti scientifici come me. Sia Helgoland sia L’ordine del tempo sono bellissimi, e in certi passaggi sembra davvero – ripeto, sembra – che lui stia parlando di cinema. Del resto il cinema cos’è, se non la scomposizione del tempo e la sua ri-composizione per frammenti in un ordine che normalmente il tempo non ha? Non credo sia un caso – ti do una notizia, forse – che alla bella età di 89 anni Liliana Cavani stia girando un film ispirato proprio al suo libro L’ordine del tempo, alla cui sceneggiatura Rovelli ha collaborato. Uscirà nel 2023 quando Liliana, di anni, ne avrà 90. Ovviamente l’ho saputo dopo aver scritto altrimenti avrei terminato il libro così.

In Short Cuts la scrittura ha un andamento sapientemente divulgativo: è stato complicato – o più semplice? – misurare il linguaggio specialistico della critica cinematografica e adottare uno stile discorsivo?

Spero di non suonare presuntuoso, ma è stato semplice. Io ho fatto il giornalista per più di 40 anni. Quando ho cominciato a scrivere sull’Unità nel 1978 il mio maestro, l’ex critico del giornale Ugo Casiraghi, mi disse: “Ricordati sempre che scrivi per operai che ti leggono in tram, la mattina, andando in fabbrica. Già è un miracolo se leggono la pagina degli spettacoli. Se poi non li catturi con le prime tre righe passano a un altro articolo”. Ammetto ci fosse un pizzico di retorica nel discorso sugli operai (che però allora esistevano ancora… ed esistono anche oggi, solo che nessuno parla più di e con loro!) ma aveva ragione. Non sto dicendo che questo sia un libro per operai, anche se vuole essere un libro per tutti, anche per chi non sa molto di cinema. Sto dicendo che per me scrivere in modo discorsivo è connaturato, mi viene spontaneo. Posso scrivere anche in modo più criptico, ma mi costa uno sforzo, e in fondo perché? A me piace essere comprensibile, e restituire – quando possibile – il “parlato”, pur sapendo che parlare è una cosa e scrivere è un’altra. Detesto la scrittura accademica e detesto i libri pieni di note. Detesto, come suol dirsi, “predicare ai convertiti”.

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Leggendo questo libro ho avuto l’impressione che il suo componimento abbia costituito anche un intimo viaggio esistenziale, una sorta di bilancio d’una vita segnata dall’amore per il cinema. Se così, era nelle intenzioni?

Lo è, e ti ringrazio di averlo colto. Non è un “memoir”, come dicono gli americani. Non nego che mi piacerebbe scriverne uno, ma attenzione: non raccogliendo i pezzi che ho scritto in 45 anni di lavoro, per carità, gli articoli di giornale raramente superano la prova del tempo: nascono per durare 24 ore e poi debbono giustamente sparire. Ma per raccontarne le circostanze, gli incontri che a volte stanno “dietro” un articolo. Ti faccio un esempio: in una delle primissime edizioni di Cannes che ho seguito ho intervistato James Stewart, ed è di gran lunga il gigante più gigantesco che abbia conosciuto in vita mia. Ma non avrebbe alcun senso riproporre le 70 righe che scrissi per l’Unità, tra l’altro dettate “a braccio”, al telefono, perché l’intervista era finita tardissimo e il giornale stava chiudendo; mentre sarebbe divertente raccontare dove e come incontrai Stewart, cose che non misi nell’articolo. Comunque, sì, è stato un viaggio e qui dentro c’è in sostanza quello che penso del cinema, e del rapporto che con il cinema si può avere; oltre a un ideale “canone” di opere che ovviamente è il mio canone, non quello di tutti – non ho l’ambizione, alla Bloom, di imporre un canone universalmente condiviso. Credo che ogni amante del cinema potrebbe scrivere il suo Short Cuts, e sarebbero tutti diversi.

Progetti in cantiere?

Nel 2023, in occasione dei 50 anni dalla morte, uscirò con un libro su John Ford per l’editore Jimenez. Cercherò di spiegare – e, spero, di rendere condivisibile – la mia idea che Ford sia il più grande di tutti. Sarà anche quello una sorta di viaggio critico-esistenziale. Poi con Laterza abbiamo altre idee ma è presto per parlarne.

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