Eugenio Bennato chiude il tour "W chi non conta niente"
Top

Eugenio Bennato chiude il tour "W chi non conta niente"

"Welcome to Napoli" annuncia il nuovo disco in uscita del cantautore napoletano.

Eugenio Bennato in concerto
Eugenio Bennato in concerto
Preroll

publisher Modifica articolo

30 Aprile 2022 - 10.38


ATF

di Alessia de Antoniis

Sabato 30 aprile, alle 21 al Trianon Viviani, Eugenio Bennato conclude ufficialmente il tour del suo concerto “W chi non conta niente” con un evento esclusivo. Il cantautore ha scelto il teatro della Canzone napoletana per presentare in anteprima live il nuovo singolo “Welcome to Napoli”, primo estratto del nuovo disco in uscita a fine 2022, che parla della città come luogo dell’accoglienza, dove si rispettano e si valorizzano le diversità.

Per questo concerto partenopeo, Eugenio Bennato interpreterà il brano “Welcome to Napoli” insieme alla cantante ucraina Juliana Pylypiuk, la pianista Tetyana Sapeško, di origine russa e ucraina, e la violinista russa Inna Kulikova, per sottolineare la necessità dello spirito della pace, della condivisione delle culture e della fratellanza tra i popoli.

Sul palco l’ensemble vocale le Voci del Sud – Laura Cuomo, Francesco Luongo, Angelo Plaitano e Daniela Dentato – , Ezio Lambiase (chitarra classica e chitarra elettrica), Mujura (chitarra acustica e basso), Sonia Totaro (voce e danza) e Francesca Del Duca (voce e percussioni).

“W chi non conta niente” è un viaggio musicale, dove le vite e le storie narrate si fondono in un racconto corale che inneggia all’arte che si ribella, l’arte controcorrente, quella che nasce da una scintilla inconscia e va ad evidenziare la capacità degli ultimi di farsi sentire. E proprio a chi non conta niente, a chi non sale sul carrozzone dei vincitori, del business dell’universo nord-occidentale, a chi sta dall’altra parte è dedicato il racconto musicale firmato da Eugenio Bennato.

Welcome to Napoli” sarà presentato al Trianon di Napoli e anticipa l’album in uscita. Musiche ispirate alle tematiche attualissime dell’integrazione e della valorizzazione delle identità mediterranee e dei Sud del mondo. A chi dà il benvenuto oggi Napoli?

“Welcome to Napoli” è la mia storia insieme a quella della mia città. C’è sempre stata in Napoli quella mentalità che viene da lontano, dalla Magna Grecia: una città dove si sente il respiro del mare e l’anima di chi viene dal Mediterraneo, accolto dopo un lungo viaggio. È la storia di una città che nel Seicento accoglieva i Mori. La moresca, un genere musicale tipico della tradizione napoletana, deriva dall’influenza della musica araba. A Napoli c’erano personaggi che eseguivano le moresche nelle piazze, a testimonianza della sua grande apertura. È una musica che mi ha conquistato fin da ragazzo. Ai giorni d’oggi ci siamo trovati fianco a fianco con etnie che sono arrivate già dalla fine degli anni Novanta e che hanno portato, almeno a chi ha una sensibilità musicale, dei grandi input. Io ho riscoperto la musicalità dei ragazzi che mi giravano intorno, del Maghreb, dell’Africa nera, tanti artisti che magari sono nascosti sotto gli abiti da extracomunitari, migranti, e che invece rivelano, a un’analisi più attenta, una grande predisposizione alla musica. Possono dare un grande contributo alla cultura della musica italiana.

Leggi anche:  Milva: la pantera ribelle della musica italiana che conquistò il mondo

Come i viaggiatori e i sans papier di “Mon “père et ma mère”?

È una canzone che amo. Ero a Tangeri, a proposito di accorgersi degli extracomunitari, quando incontrai un ragazzo nero come il carbone che tira fuori un foglietto dalla tasca con una frase rabberciata, e me lo dà. Non lo presi in considerazione. Poi lo lessi e vidi questa rima baciata “Mon père et ma mère/Se sont connus dans la galère” (mio padre e mia madre si sono conosciuti in una stiva – nda). Allora scrissi questa canzone, che ebbe un grandissimo successo. Quando sono tornato a Tangeri l’ho rincontrato. Lui è del Camerun. Ho ancora le immagini di lui emozionatissimo che sente i suoi versi trasformati in musica. Questa è accoglienza.

La musica napoletana ha accolto anche altre sonorità: il blues, ad esempio. Tutti guardiamo agli Stati Uniti come luogo di fusione tra musica bianca e nera, a partire dai tempi della Motown, ma Napoli questa fusione ce l’ha nel sangue da molto prima?

Basta guardare a quello che è successo nel secondo dopo guerra, esempio limpido della capacità che ha Napoli di accogliere. Gli anni in cui erano di stanza le truppe americane e durante i quali ci fu una grande apertura dei musicisti napoletani, i mandolinisti, verso l’influenza del rock’n’roll e del blues americano. Un grande esempio è Renato Carosone, una grande anima napoletana aperta allo swing.

Leggi anche:  Il "concertone" del primo maggio: musica e impegno sociale al Circo Massimo

In una sua famosa canzone lei canta “’Omm’ s’ nasc’ brigant’ s’ mor’/Ma fin’ all’utm’ avimm’ a sparà/E se murim’ menat’ nu fior’/È ‘na bestemmia pe’ ‘sta libertà”. Parla di brigantaggio che, al di là dei luoghi comuni, è stata una forma di resistenza ai piemontesi raccontati come liberatori, che avevano solo bisogno dei soldi del Sud per rimpinguare le loro casse vuote. C’erano le brigantesse, che i piemontesi chiamavano drude, prostitute. Il sud borbonico pre unitario sembra estremamente attuale. Qual è il suo sud, chi sono i suoi briganti?

Fin da quando ero ragazzo, seguendo il mio istinto, incominciai a fare delle scelte. La prima fu quella di scegliere come maestri di arte musicale i rappresentanti della musica popolare, i misconosciuti maestri di Tammurriata e di Taranta. È stato il mio primo schierarmi dalla parte di una minoranza sconosciuta. Il secondo passo è stato quello di riconoscere nel brigantaggio questi maledetti briganti, che invece qualche cosa da dire l’avevano. Rivendicavano la propria identità di fronte a un esercito che scendeva per abbattere, come avviene oggi in altre parti del mondo, senza riconoscere l’identità culturale che apparteneva al sud. Questi sono i briganti. ‘Omm’ s’ nasc’ brigant’ s’ mor’ è stata un’intuizione di tanti anni fa che è diventato un inno del Sud. Mi arrivano da tante nazioni del mondo traduzioni di questo testo che viene adottato come manifesto di lotta e di rivolta.

Negli anni Settanta fonda la Nuova Compagnia di Canto Popolare, in un’Italia che scopriva la musica anglosassone, da Bob Dylan a Joan Baez a John Lennon. Erano gli anni dopo la Woodstock del 1968, della musica politica e rivoluzionaria che urlava basta alla guerra in Vietnam che durava dal 1955. Quando nel 1989 crollò il muro di Berlino, pensavamo fosse finita un’era. Oggi Woodstok sarebbe fuori luogo? Dove sta la nuova Woodstock, dove sono i nuovi cantautori politicamente impegnati?

Leggi anche:  Che fine ha fatto il Disco di Diamante, nell'epoca dello streaming? Ecco come si calcolano i 'premi' della musica

È una domanda impegnativa e imbarazzante. Questo excursus racconta un’epoca che in questo momento viene infangata dai tiranni del presente. Hanno affossato decenni di ottimismo e di pacifismo, per nascondere una terribile storia che in realtà è fatta di guerra. Oggi non ci sono i cantautori, ma c’è il popolo. C’è il popolo della Tammurriata e della Taranta che oggi si è rivolta in maniera rivoluzionaria a una storia che non ci appartiene. Proprio in questi giorni ci sono state feste, molto meno eclatanti del Woodstock, ma più capillari.

Eseguirà “Welcome to Napoli” insieme a una cantante ucraina, una pianista di origine russa e ucraina, e una violinista russa. A Roma la Via Crucis è stata criticata perché in una delle stazioni la croce veniva portata da due donne, una russa e una ucraina…

Il fatto che il Papa sia stato criticato è un bruttissimo segno. Evidentemente gli ucraini in questo momento, distrutti dai bombardamenti, non comprendono l’importanza del valore di questo gesto. Sempre più persone stanno impazzendo. Io sfido tutte le critiche e rivendico la bravura di queste eccellenti artiste. Aascoltarle insieme fa emergere il senso della bellezza che accomuna il mondo. Non voglio sentire queste sciocchezze…

Negli anni Settanta ha incontrato Edoardo de Filippo. Cosa ricorda?

Mi colpì moltissimo. Ero molto giovane, erano gli anni del teatro sperimentale di Napoli. Uscii sul palco e vidi in prima fila Eduardo de Filippo che ci guardava assorto. Mi impressionò come questo ultrasettantenne fosse ancora vivo e attento a scoprire il mondo che lo circondava. Fu un grande insegnamento. Ho sempre amato il teatro di Eduardo e da quel momento lo apprezzerai ancora di più come persona proiettata verso il futuro.

Native

Articoli correlati