'Il metodo Giacarta': la globalizzazione della strategia del terrore anticomunista
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'Il metodo Giacarta': la globalizzazione della strategia del terrore anticomunista

Intervista all'autore de 'Il Metodo Giacarta', pluripremiato giornalista americano Vincent Bevins, corrispondente per il “Los Angeles Times” dal Brasile e poi per il “Washington Post”

'Il metodo Giacarta': la globalizzazione della strategia del terrore anticomunista
Vincent Bevins
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28 Aprile 2022 - 14.14


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di Rock Reynolds

È risaputo. Il periodo cupo dei golpe militari che insanguinarono l’America Meridionale e Centrale, tra gli anni Settanta e Ottanta, non fu una serie di accadimenti casuali, bensì l’attuazione scientifica di un piano orchestrato dalla CIA insieme alle destre latinoamericane. Un piano che ha un nome, Operazione Condor. A essa venne dato inizio a Santiago del Cile nel 1975, sotto l’egida del generale Augusto Pinochet, alla presenza di Manuel Contréras (collaboratore della CIA e fondatore della famigerata polizia segreta cilena) e dei rappresentanti di Argentina, Bolivia, Brasile, Uruguay e Paraguay, presto accomunati da un triste destino di repressione sanguinosa.

C’è chi ancor oggi contesta questa ricostruzione, liquidandola come una narrazione populista e sinistrorsa, ma i dati sono certi e la stessa Madeleine Albright, segretaria di stato per la seconda amministrazione Clinton, scomparsa da poco, ha apertamente ammesso il ruolo recitato dagli Stati Uniti attraverso la CIA, nella guerra allo spettro comunista in America Latina.

Ciò che non molti sanno è che l’Operazione Condor in realtà nacque da un progetto di lotta anticomunista che finì per mietere milioni di vittime nel Sudest Asiatico, prima ancora che nel continente americano, trasformandosi in una sorta di inumano esperimento, nel delirante tentativo di imporre uno stile di vita – quello capitalista americano – a paesi lontanissimi sul piano geografico e culturale. Il tutto per sventare un fantomatico complotto comunista planetario e per impedire a governi di impostazione marxista di prendere il sopravvento, con il rischio che i grandi gruppi di interesse americani non riuscissero più a spadroneggiare come avevano sempre fatto.

Il metodo Giacarta (Einaudi, traduzione di Maddalena Ferrara, pagg 340, euro 30) del pluripremiato giornalista americano Vincent Bevins, corrispondente per il “Los Angeles Times” dal Brasile e poi per il “Washington Post” dal Sudest Asiatico, mette ordine in una materia la cui complessità è principalmente figlia della segretezza a cui le trame della CIA e delle giunte militari a essa assoggettate vincolarono ogni azione. Gli enormi fondi investiti per creare controinformazione e propaganda accecanti contribuiscono a ingarbugliare il quadro generale.

In fondo, la Guerra Fredda non fu un semplice scontro tra due grandi potenze, bensì “circostanze globali nelle quali la grandissima maggioranza  dei paesi del mondo passò dal dominio coloniale diretto a qualcos’altro”. Ma in che modo prevalse il modello della globalizzazione, termine a cui Blevins dice che si può tranquillamente sostituire “americanizzazione”? A rispondere con parole semplicissime è un superstite dello sterminio dei simpatizzanti del partito comunista in Indonesia: “Ci avete ammazzati”.

Originariamente, “Giacarta… indicava uno sviluppo indipendente del Terzo mondo che Washington aveva bisogno di considerare una minaccia”. In fondo, gli USA da sempre hanno la necessità patologica di uno spettro nemico. “Giacarta” finì per significare “omicidio di massa… sterminio organizzato… dei civili che si opponevano alla costruzione di regimi autoritari capitalisti leali agli Stati Uniti… sparizioni e… terrore di stato”. Una disamina che fa immediatamente pensare a quanto accaduto in Cile e, in seguito, nel resto dell’America Latina.

Eppure, nel continente americano si era già avuta una terribile manifestazione di tale violenza ai danni della popolazione civile e degli oppositori politici. Il Brasile ne era stato un esempio più che preoccupante già dalla fine degli anni Cinquanta, con il primo grande golpe militare. E, a giudizio di Vincent Blevins, i semi di tale violenza repressiva e antidemocratica erano stati sparsi proprio in Indonesia, una nazione enorme e popolatissima, la cui prossimità alla Cina e, soprattutto, i cui slanci di non-allineamento a Unione Sovietica e Stati Uniti, avevano spinto questi ultimi a pianificare il sovvertimento del suo ordine democratico, favorendo la salita al potere di una giunta di militari spietati e assetati di sangue agli ordini del generale Suharto ed esautorando il controverso leader Sukarno.

Quest’ultimo, nel corso della conferenza di Bandung del 1957, aveva teorizzato per il Terzo mondo un modello socialista di sviluppo praticabile. In fondo, l’Indonesia era molto più importante del Vietnam: “perdere” l’Indonesia sarebbe stato strategicamente molto più grave. Giacarta, la sua capitale, finì così per non essere “più sinonimo di cosmopolitismo, solidarietà terzomondista e giustizia globale, ma di violenza reazionaria”, al punto che le squadracce della destra cilena avevano iniziato a scrivere il sinistro slogan “YAKARTA VIENE” sui muri di Santiago ben prima del colpo di stato. E dire che tutto era iniziato alla fine degli anni Cinquanta nel Kansas, presso l’accademia militare di Fort Leavenworth, quando un gruppo di giovani ufficiali indonesiani era stato addestrato al fanatismo anticomunista e alle tecniche della controguerriglia.

Blevins ricostruisce il modo in cui un piano concepito per tenere a bada una ricca nazione asiatica finì per essere applicato con perizia chirurgica alla diversissima America Latina. Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Nixon, nel 1970 approvò lo stanziamento di grossi fondi per una missione di guerra politica proprio in Cile, dichiarando, “Non vedo perché dobbiamo stare fermi a guardare un paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità della propria gente”. Alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli.

L’autore fa piazza pulita dei luoghi comuni sullo spauracchio comunista sfruttato per giustificare scelte internazionali che causarono sofferenze inimmaginabili a popolazioni innocenti. Lo fa senza temere gli strali dei benpensanti occidentali, portando il lettore ad aprire faticosamente gli occhi di fronte allo strisciante razzismo che consentì all’Europa Occidentale slanci di “moderato socialismo, mentre nel Terzo mondo orientamenti politici simili provocavano interventi brutali”.

Le parole che Vincent Bevins ci ha detto tagliano come lame affilate.

Da dove nasce l’ossessione americana per lo spettro del comunismo?

Da due cose, credo. Da una parte, il comunismo – mi riferisco alla forma ufficiale da esso assunto dopo la rivoluzione bolscevica – offrì al mondo, specialmente ai paesi poveri, un percorso alternativo alla modernità. Pertanto, fu necessario un rivale geopolitico per qualsiasi nazione intenzionata a guidare un ordine mondiale progressista. E poi c’è la questione ideologica: il comunismo semplicemente va contro molte delle convinzioni più profonde di chi colonizzò l’America Settentrionale, ovvero individualismo, proprietà privata, libertà in quanto potere economico.

Per esempio, lo storico britannico Eric Hobsbawm dice che si può “sostanzialmente definire l’americanismo come l’opposto del comunismo”. Quindi, dopo la Seconda Guerra mondiale, quando gli Stati Uniti divennero la nazione più potente della storia con la possibilità reale di plasmare un ordine globale capitalistico a guida USA, l’URSS ne fu il diretto rivale. Penso che l’aspetto materiale dell’equazione vada ad amplificare il preesistente elemento ideologico. Ma gli effetti peggiori si videro nella Guerra Fredda, quando ci fu la percezione che alcune nazioni del Sud del pianeta ostacolassero gli interessi economici degli USA o di aziende statunitensi e la loro postura geopolitica fu vista come una minaccia alla costruzione del nascente ordine a guida USA.

Come funzionava la politica americana del bastone e della carota nei paesi a rischio di comunismo?

Durante la Guerra Fredda e, più in generale, nell’esercizio del potere statunitense, ci fu un ampio insieme di meccanismi utilizzabili per spingere un determinato paese su una determinata strada, per costruire e riprodurre l’egemonia degli USA. Nel mio libro, mi concentro su uno solo di tali meccanismi, forse il più orribile utilizzato: l’omicidio di massa a livello internazionale dei sostenitori della sinistra o di chi veniva considerato tale, al fine di costruire regimi capitalisti autoritari.

I “bastoni” sono svariati: pressione economica, pressione diplomatica, colpi di stato militari, invasioni vere e proprie, assassinii mirati, destabilizzazione occulta e via discorrendo. Ma ci furono pure parecchie “carote”: aiuti economici, aiuti militari, l’integrazione di certi paesi nel campo dei “buoni”, senza andare troppo per il sottile (compresi regimi brutali e ladroni come quelli emersi in Indonesia e nelle Filippine, cosa che potrebbe presto portare all’elezione del figlio di Ferdinand Marcos). Uno dei punti principali che intendo sottolineare nel mio libro è che quella cassetta degli attrezzi (soprattutto i bastoni) cresce nel tempo, man mano che gli addetti alla politica estera apprendono quali cose funzionano o non funzionano in determinate situazioni. Se si fa un passo indietro, si vede come si è sviluppato un processo di apprendimento nell’amministrazione dell’impero USA. Si scambiano da un confine all’altro tecniche e informazioni: eventi come l’omicidio di massa di circa un milione di persone avvenuto nel 1965 hanno conseguenze globali.

Com’è possibile che gli USA da colonia si siano trasformati in potenza coloniale? E come mai hanno stretto il legame più forte con il Regno Unito?

Siamo sempre stati due cose insieme, giusto? Da una parte, fin dalla fondazione formale della nostra repubblica, gli USA hanno abbracciato una retorica rivoluzionaria, anticolonialista. Dall’altra, però, prendete una mappa e guardate le dimensioni degli USA nel 1776 e poi guardate le dimensioni attuali del paese. La spiegazione? L’imperialismo praticato nel Nord America stesso, ben prima del 1898, quando iniziarono gli esperimenti in terra straniera. E, all’interno del paese, la libertà nel senso progressista del termine fu concessa soltanto ai maschi bianchi e una sorta di regime segregazionista rimase in atto fino agli anni Sessanta. Non è che, quando cacciammo gli inglesi, a riprendere il controllo del paese siano state le popolazioni indigene: quel tipo di movimento anticoloniale non ci fu mai.

Quello che mi risulta davvero interessante è che, nei primi anni successivi alla Seconda Guerra, persino i leader più convintamente rivoluzionari del Terzo mondo – figure come Ho Chi Minh, Mao e pure non-comunisti come Sukarno – non sapevano quale di questi due aspetti dell’identità degli USA avrebbe finito per essere dominante. Speravano tutti di avere buone relazioni con Washington. Dunque, con il senno di poi, è facile dire che era ovvio che la natura degli Stati Uniti e l’orientamento capitalista della sua classe dominante implicassero che sarebbero andati a occupare uno spazio vacante tra le potenze coloniali e che avrebbero sempre abbracciato l’imperialismo globale. Ma credo che sia giusto ricordare che, al tempo, la situazione sembrava diverse e che ci fosse la sensazione che le cose potessero andare anche nell’altro senso.

In che modo gli USA hanno seminato il terrore comunista tra i loro cittadini?

Be’, se si ripensa agli inizi della Guerra Fredda, creare terrore sulla “minaccia del comunismo internazionale” era un obbiettivo esplicito. Arthur Vendenger, presidente della Commissione del Senato per le Relazioni Internazionali, diede un consiglio al presidente Truman: per ottenere ciò che voleva, la Casa Bianca avrebbe dovuto “spaventare a morte il popolo americano” riguardo al comunismo. Truman seguì tale consiglio, che funzionò a meraviglia. Ovviamente, il governo degli Stati Uniti disponeva di tutti i mezzi indicati in precedenza per farlo funzionare.

Pensa che l’ammissione delle responsabilità americane nella caduta del governo Allende fatte da Madeleine Albright abbiano avuto un impatto sull’opinione pubblica statunitense?

Suppongo di no, perché – e parlo a titolo meramente personale – non l’ho mai sentita!

Una conoscenza geopolitica superiore potrebbe far aprire gli occhi alla gente?

Spero proprio di sì. Buona parte di quello che ho tentato di fare con il libro Il Metodo Giacarta è stato semplicemente ricostruire i fondamenti del sistema mondiale, basandomi più sulla realtà materiale e meno sulle necessità ideologiche del progetto nazionalista statunitense. Vengo dagli Stati Uniti e il libro è stato pubblicato prima in USA. Però, ho voluto che fosse qualcosa che anche un adolescente del Ghana, della Sardegna o del Guatemala avrebbe potuto leggere agevolmente. È una sensazione davvero gratificante scoprire che ci sono università che lo hanno adottato, un fatto straordinario, considerato che ciò che ho creato aveva ambizioni semplicissime.

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