Noi tutti siamo orfani di Pier Paolo Pasolini
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Noi tutti siamo orfani di Pier Paolo Pasolini

Il 2 novembre di 41 anni fa veniva assassinato uno dei più grandi poeti, scrittori, intellettuali della nostra storia recente. Un'assenza profonda. Ecco il pezzo bello di Emiliano Deiana.

Pier Paolo Pasolini
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2 Novembre 2016 - 10.16


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di Emiliano Deiana

Il 2 novembre 1975 l’Italia si svegliava orfana di uno dei suoi figli più belli.
Uso questo artificio linguistico, questo ossimoro per sentimenti e condizioni, perché la lingua italiana non ha designato con una parola la condizione di coloro che perdono un figlio. Gli orfani, si sa, sono coloro che perdono i genitori, perdono coloro che li hanno messi al mondo, mentre non c’è una parola che determini, in maniera netta ed inequivocabile, l’assenza di un figlio.
E se l’Italia se lo ha concepito quel figlio, lo ha anche ucciso.
E per questo, mai, si è sentita “orfana” di figlio; genitrice ed assassina, insieme.

E dal 1975 ad oggi poco o niente è cambiato, in questo Paese.
Un Paese che si avvita su se stesso, che ha in odio le voci libere, che ha inventato la figura dell’intellettuale organico al potere, ai partiti, ai movimenti. Il potere che irrazionale si muove per la Penisola e le isole, un potere anarchico, psicotico, asserragliato nelle sue infinite torri d’avorio.
Manca, oggi, all’Italia la voce di uno come Pasolini; manca la sua voce limpida, la sua poesia, la sua arte, la sua eresia. Manca il suo essere e mischiarsi al popolo, essere voce e popolo, insieme.

E guardando con freddezza al tempo che è passato dal 1975 ad oggi non si capisce se quel potere – sempre identico a se stesso – fosse più feroce oggi o allora; un potere che consentiva, comunque, a quella voce di esprimersi dal simulacro mediatico del Corriere della Sera e piano piano lo uccideva, fino a quella terribile notte al Lido di Ostia. E se è vero che quella voce che rimbalzava, incolonnata dalle pagine del quotidiano di Via Solferino, era davvero libera – nella misura in cui può essere libero colui che “non ha le prove” – era forse il Potere, nelle sue forme parcellizzate ed impazzite, che si beava della propria liberalità, cosciente (lucidamente cosciente) della sua potenza che si esplicitava in quella concessione all’eresia.
Oggi però, nell’epoca della piattezza quella concessione neanche la si può immaginare. Non la si può immaginare perché una voce come quella di Pasolini non esiste e se esiste appare sconosciuta, delocalizzata nei meandri della rete, ma che non si fa voce, non si fa popolo, non si fa eresia. Quella concessione – ipotizzando che uno come Pasolini esista, oggi – non ce la possiamo immaginare nella santorizzazione televisiva, nella concentrazione monopolistica dell’informazione, nel mutuo sostegno che quell’ipotetica voce darebbe, oggi, ad un potere ancora più ottuso ed ignorante di quello di ieri.

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E non si tratta, ancora una volta, per una specie di estetica della semplificazione, di immaginarci destra e sinistra diversi – in verità non si tratta di immaginarceli neanche identici per la vergogna qualunquistica che si esplicita dagli urlanti contestatori del Potere dai quali essi stessi alimentano la propria voce urlante, il beppegrido sbraitante, con la bava alla bocca – non si tratta, si diceva, di immaginarci la destra e la sinistra differenti, sul piano comportamentale e dei rapporti con chi produce Parola, Voce, Idea. Perché è utile ricordare a chi legge che il 26 ottobre 1949 il PCI togliattiano, nel fisico e nella mente, espulse il giovane Pasolini per indegnità morale: perché la sua omosessualità si era fatta scandalo, scandalo per un partito, al fondo, perbenista, ipocrita, senza immaginazione, burocratico fino al midollo. E Pasolini rimase, solitario ed esule, comunque comunista, con tutto quello che significava nell’Italia degli anni ’50 e ’60.
Ma non si tratta, qui, di ripercorrere la poetica di Pasolini; si tratta, semmai, di immaginarci il rapporto che le voci hanno con il Potere, di ieri e di oggi. Un potere che come quello di allora si divide fra l’ottusità del burocratismo e la voracità dell’affarismo: che quella voce la scaccia come si scaccia una mosca, con lo stesso identico fastidio di chi sa che quella mosca, per un uso sbagliato della parola, potrà essere schiacciata e ridotta in poltiglia.

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Come quel corpo distrutto, su un campo di calcio, al Lido di Ostia.
Di fatto è quello il monito che si è perpetrato dal 1975 ad oggi, quel corpo distrutto, martoriato, devastato dalla violenza barbara rimarrà ad imperitura memoria per coloro che si sognassero di creare un rapporto fecondo fra parola e popolo, che mostrassero alle persone che si affannano nella costruzione di una vita dignitosa o che si agitano nella miseria più nera i meccanismi coi quali si muovono i poteri della politica, dei partiti, della finanza e le loro infinite connessioni e sovrapposizioni.

Perché l’Italia è il Paese – un Paese senza rivoluzioni – che ancora oggi tollera la telefonata di un Ministro della Giustizia che promuove, lividamente, l’azione di sinapsi per mandare impulsi al Paese e dire che la giustizia non esiste, esiste la giustizia per i potenti ed esiste la dimenticanza per i poveri cristi; perché è qui che risiede, da ultimo, il vizio marcio e l’essenza del potere italiano: una ristretta cerchia di persone che tutto condivide nel potere economico, politico, burocratico. Una ristrettissima cerchia che tuba sui fiori dell’arricchimento e della depredazione delle casse pubbliche che i suicidi in carcere – a decine! – sono effetti collaterali; che il sovraffollamento delle galere è la risposta contro il “crimine”; che i barconi di disperati che navigano il Mediterraneo sono un fastidio da riconsegnare ad un altro altrove; che i vecchi che cercano rimasugli di cibo nei cassonetti dell’immondizia, in fondo, sono dei falliti.

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Per questi, invece, canterebbe la voce di Pasolini, come già cantò.
A Pà, tutto passa, il resto va.

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