Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia
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Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia

La paura di essere definite razziste ha fatto tacere tante attiviste di sinistra in prima linea contro la violenza sulle donne. Ma questo atteggiamento fa bene all'accoglienza?

Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia
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Claudia Sarritzu Modifica articolo

7 Gennaio 2016 - 15.57


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Bisogna chiedersi cosa significa essere femminista, come significa essere di sinistra e cosa significa essere per l’accoglienza e per la libera circolazione di idee e persone, per capire cosa sta accadendo dopo i fatti di Colonia, tra le attiviste occidentali che difendono la dignità delle donne.

La paura di essere marchiate come razziste, in questa occasione, a mio avviso ha fatto mettere in secondo piano la battaglia più importante per il genere femminile: quella per la nostra libertà, quella di poter circolare liberamente per le nostre città senza la paura di essere molestate o addirittura stuprate.

Questo nostro inviolabile diritto non può certo essere messo in discussione solo perché si sospetta che tra i mille aggressori ci siano uomini di origine araba. Il razzismo sta proprio in questa differenza di trattamento. Un criminale, un violento, è violento qualsiasi sia il colore della sua pelle o la religione in cui crede. Siamo tutti uguali non solo nelle cose belle e onorevoli, ma anche in quelle meschine e orride.

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Altra questione. I fatti di Colonia non sono del tutto chiari, e solo le indagini potranno chiarire se si è trattato realmente di un attacco programmato e organizzato contro i costumi occidentali delle donne. Ma se così fosse, proprio in nome dell’integrazione, non dobbiamo venir meno alla difesa dei nostri valori, solo per paura di apparire meno “pro-immigrazione”. L’immigrazione è sempre positiva quando porta pluralismo, non quando impone violenza in nome di una falsa identità culturale. Non è cultura molestare una donna.

In fine credo che noi donne di sinistra dobbiamo assolutamente intraprendere un dibattito che abbia come tema l’equilibrio tra il nostro modello di vita e quello di tante donne immigrate. Tentare di trovare una conciliazione tra libertà e tradizione, senza ledere la libertà di espressione delle donne straniere, ma anche la nostra. Magari potremmo partire da una semplice distinzione tra burqa e velo. Dovremmo smetterla con l’ipocrisia tutta di sinistra di considerare il velo integrale (il burqa appunto) una scelta. Nessuna donna libera sceglierebbe di andare in giro per strada ad agosto con un telo nero che non le permette di respirare e di vedere se non da una retina.

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Essere dunque femminista e di sinistra e per un mondo accogliente e solidale, significa essere sempre e comunque per la libertà delle donne, libere dalla paura di etichette inutile e pericolose.

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