Il politico e l’artista: il potere più grande è quello che non si esercita
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Il politico e l’artista: il potere più grande è quello che non si esercita

La potenza del potere politico non ce la fa a reggere il peso dell’astinenza, risponde ad un meccanismo compulsivo di passaggio all’azione. [Sandro Vero]

Il politico e l’artista: il potere più grande è quello che non si esercita
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3 Novembre 2015 - 19.25


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di Sandro Vero

Un capitolo del libro di Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, è dedicato alla creazione artistica. Una scrittura densa e traboccante di pàthos riesce nell’impresa di rendere avvincente un argomento complesso come quello dell’aporia che si annida dentro quel tema. Il fondamento concettuale del discorso di Agamben è la distinzione aristotelica fra potenza e atto, con la quale il filosofo greco intendeva trovare una chiave interpretativa del rapporto che lega, nel tempo, nella storia, un evento ad un altro, una causa ad un effetto, una forma ad un’altra.

L’aspetto problematico della diade aristotelica è quello della duplice natura della potenza, che si esplica non soltanto nel suo muovere verso l’atto, nel suo trasformarsi in atto, e dunque nel suo essere potenza-di-fare, ma anche – e forse più significativamente – nel suo astenersi dall’atto, nel suo non trasformarsi in esso, e dunque nel suo essere potenza-di-non-fare.

Una memorabile scena del film Schindler’s List, di Spielberg, spiega meglio di qualunque dotta dissertazione la concretezza di quella geniale intuizione. Durante una conversazione, alleggerita da ingenti quantità di alcool, con Amon Goeth, il responsabile del campo di sterminio, – da cui ha da poco ottenuto la concessione di usare i prigionieri per la sua fabbrica – Schindler si rivolge all’ufficiale nazista, in tono confidenziale, prospettandogli una interpretazione inedita del potere: quando uno schiavo veniva condotto dinanzi all’imperatore romano reo di un crimine, la vera forza del potere che il sovrano amministrava non era quella di punirlo, non quella di metterlo a morte, bensì – nella certezza abbagliante della sua colpevolezza – quella di perdonarlo, cioè di non-agire il suo potere trasformandolo in atto (punitivo) e di far consistere in questo non-agire il dispiegarsi pieno e proprio del potere medesimo. Dopo una fugace seduzione della possibilità di essere emulo di un imperatore e un paio di perdoni comminati a caso, Amon Goeth recupera urgentemente la sua nozione di potere uccidendo il ragazzo deputato alla pulizia della vasca da bagno, reo di avervi lasciato un inaccettabile alone di sporcizia.

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Certo, la potenza creativa dell’artista e il potere politico e militare non sono proprio riducibili ad unità, nonostante il comune tratto semantico. L’artista immette nel suo atto creativo l’infinita ricchezza delle tante scelte non-fatte, dei tanti passi non-effettuati, delle parole non dette e dei suoni non prodotti e delle forme non realizzate. Il politico – alla stessa stregua – dovrebbe rendere ogni gesto in cui si sostanzia il suo potere una ricapitolazione dei tanti gesti da cui si è astenuto, una ricchezza che può venire solo da una costante pratica della privazione.

Sappiamo bene come vanno le cose: la potenza del potere politico non ce la fa a reggere il peso dell’astinenza, risponde ad un meccanismo compulsivo di passaggio all’azione. Ovvero, l’agito, nozione introdotta da Freud, a significare sostanzialmente la mancanza di uno snodo psichico in cui il soggetto elabora, o come si dice in gergo: mentalizza.

Il potere aspira naturalmente alla sua visibilità, alla sua incredibile capacità di tradursi in atto, e poi dunque in fatto.

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La sua potenza è infinitamente meno ricca di quella dell’artista.

L’articolo è stato pubblicato online su [url”Sicilia journal”]http://www.siciliajournal.it/[/url], il 31 ottobre 2015.

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