Julek e Jurek, due piccoli infiltrati che giocano a nascondino con la storia
Top

Julek e Jurek, due piccoli infiltrati che giocano a nascondino con la storia

A confronto i piccoli protagonisti del film di Pepe Danquart, ‘Run, boy, run’ e del romanzo di Joanna Gruda, 'Il bambino che parlava la lingua dei cani'. [Marta Scandorza]

Julek e Jurek, due piccoli infiltrati che giocano a nascondino con la storia
Preroll

redazione Modifica articolo

10 Aprile 2014 - 19.43


ATF
di Marta Scandorza

Due storie diverse, ma con due destini molto simili, quelli dei piccoli Jurek e Julek, i protagonisti del film di Pepe Danquart, Run, boy, run e del romanzo d’esordio di Joanna Gruda, Il bambino che parlava la lingua dei cani. Entrambi i racconti sono ispirati a storie vere.

I titoli di coda di Run, boy, run, il film di Pepe Danquart, scorrono sullo schermo della fortuita e minuscola sala di proiezione lasciando i pochi spettatori in un silenzio assoluto e colpevole. Il piccolo Jurek (viene chiamato così per la gran parte del film e alla fine ci si abitua pure, ma ogni tanto torna in mente che quello non è il suo vero nome ma solo un estremo tentativo di salvezza) fugge dal ghetto di Varsavia per scampare alla deportazione, vaga da solo per sterminati campi innevati, con addosso un cappottino e delle scarpette via via sempre più logori. Mangia radici, lavora nelle fattorie, trova rifugio, protezione e un tetto caldo, o finisce nella mani sbagliate e complici di chi vuole consegnarlo ai tedeschi per denaro.

Ha la forza di reinventarsi, soffrendo per l’incapacità di comprendere e dare anche una vaga possibile giustificazione a un male così tanto profondo. Era quell’impossibilità condivisa di trovare un senso che lasciava immobili gli spettatori, mentre Jurek e i suoi grandi meravigliosi occhi tristi si dissolvevano nel nero dello schermo.

Leggi anche:  La crisi della narrazione nell'era digitale: il potere delle storie umane

Ma Jurek è apparso ancora, questa volta sotto un’altra forma e un altro nome: ora si chiama Julek, ed è il protagonista de Il bambino che parlava la lingua dei cani, il romanzo esordio di Joanna Gruda. La sorte di Julek è simile a quella di Jurek: il giovane ha di nuovo la sfortuna di nascere da genitori ebrei polacchi proprio negli anni in cui Hitler decide di mettere a ferro e fuoco l’Europa. Ma questa volta c’è di più: Lena e Emil non sono solo ebrei, sono anche comunisti attivisti. E in quella situazione di estrema crisi internazionale sono i vertici del partito a decidere se una compagna militante può portare avanti una gravidanza o no.

Quando Lena si accorge di essere incinta si trova a Mosca, in esilio col Partito. E già rassegnata ad abortire, ma la caparbietà di Emil e una votazione favorevole di tutto il partito hanno la meglio. Julek nasce nel grembo della Grande Storia, che segnerà le fasi più turbolente della sua infanzia e dell’adolescenza. Lena dà alla luce il bambino, ma poi non può occuparsene, perché è impegnata al cento per cento nell’attività politica: il piccolo Julek, quindi, viene affidato agli zii e cresce con loro nella falsa convinzione di far parte di una normalissima famiglia proletaria.

Leggi anche:  Macron vuole rafforzare le sanzioni contro i coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania

Ma poi Emil viene arrestato e deportato in Siberia, e Lena si trasferisce in Francia per poter continuare la sua militanza; Julek, incredulo e stordito, è costretto a seguirla. Non ha la minima idea di cosa gli stia accadendo, crede che quella che fino al giorno prima ha conosciuto come «la buona zia Lena», sia in realtà una spia e l’abbia rapito. Capisce ancor meno quando la donna lo abbandona all’Avenir Social, una sorta di orfanotrofio gestito dal partito per dare assistenza ai figli dei militanti impegnati nella resistenza.

All’Avenir Social, in realtà, non si sta poi così male. A Julek non dispiace vivere con bambini della sua età, il cibo è abbondante, e Arnold e Genevieve, i due compagni educatori, insegnano loro interessanti nozioni di storia e politica, perché possano capire almeno in parte gli eventi che hanno travolto le loro vite. La capacità di adattamento dei bambini, inoltre, è molto più spiccata di quella degli adulti! Quando arriva all’Avenir, Julek non sa una sola parola di francese, ma nel giro di pochi mesi, invece, quella lingua gli diventa assolutamente familiare.

Quando la Germania invade la Francia, e il partito comunista diventa fuorilegge, il piccolo Julek inizia a vagare da una sistemazione all’altra, di volta in volta con un vissuto e un’identità diversi. Anche lui, come lo Jurek del film, incontrerà individui più o meno buoni; proverà paura, rabbia e disillusione; tornerà a credere in un sorriso vero quando avrà la fortuna di trovarne uno, avrà la forza di reinventarsi una, dieci, trenta volte. E sarà un sopravvissuto tra centinaia e centinaia di sommersi.

Leggi anche:  Laboratorio Palestina: le cavie di Israele nell'industria della guerra

Sia Run, boy, run che Il bambino che sapeva la lingua dei cani sono tratti da storie vere. Forse alcuni passaggi più ironici e leggeri donano al libro un messaggio di fondo di maggior fiducia e speranza. Entrambi, però, tornano a denunciare l’orrore dei tragici avvenimenti della seconda guerra mondiale e la follia di un individuo aberrante. Se ancora oggi testimonianze come queste indignano, commuovono e addolorano, allora forse è utile continuare a parlarne. Forse non è stato ancora reso onore a tanto male. Forse occorre ancora ricordare.

Run, boy, run, il lungometraggio di Pepe Danquart è stato presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2013. Chissà se avrà mai una distribuzione.

Il bambino che parlava la lingua dei cani, l’esordio letterario di Joanna Gruda, è uscito a Marzo 2014 in Italia per le Edizioni E/O.

[url”[Gotohome_Torna alla Home]”]popoff.globalist.it[/url]

Native

Articoli correlati