Filosofi in rivolta: Onfray e il gramscismo di Camus
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Filosofi in rivolta: Onfray e il gramscismo di Camus

Intervista a Michel Onfray che parla del suo nuovo libro pubblicato in Italia per Ponte alle grazie: L’ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus

Filosofi in rivolta: Onfray e il gramscismo di Camus
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4 Dicembre 2013 - 15.27


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di Annalina Ferrante

L’ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus (Ponte alle Grazie) è la nuova fatica letteraria di Michel Onfray, tra i più noti filosofi viventi. Onfray ha dedicato a Camus questa imponente “biografia filosofica” che vuole testimoniare finalmente, secondo l’autore, la grande radicalità e originalità del suo pensiero.

È un ritratto di Camus a tutto tondo, quello che le pagine ci offrono. Un Camus scrittore-filosofo, un filosofo, dice Onfray, non esistenzialista ma “esistenziale”, impegnato a vivere secondo la propria filosofia, ad applicare nell’esistenza concreta le proprie idee. Un Camus libertario, anarchico, “nietzscheano di sinistra”… un progressista indipendente, senza dogmi né partiti.

Che cos’è secondo Michel Onfray una “vita filosofica”?

Per molto tempo la Filosofia è stata inscindibile dalla vita filosofica ed era impensabile insegnare la filosofia senza metterla in pratica nella propria vita. S’insegnava quindi ciò che si praticava. L’arrivo del Cristianesimo ha radicalmente modificato quest’impostazione. I padri della Chiesa hanno quindi insegnato concetti che non avevano nulla a che fare con ciò che loro stessi praticavano. Infine, l’Università ha avvalorato la separazione tra Filosofia e vita filosofica. Si potevano quindi insegnare all’Università dei concetti senza metterli in pratica nella propria vita. Tuttavia alcuni filosofi hanno derogato a questa regola come ad esempio Montaigne o Nietzsche. Questi filosofi, che pensavano per vivere e che vivevano per pensare, hanno sempre tentato di coniugare le proprie teorie con la pratica. Condurre una vita filosofica significa mettere in pratica un concetto prima di insegnarlo, significa quindi che è possibile praticarlo e si invita il prossimo a metterlo in pratica proprio perché noi stessi lo pratichiamo.

Perché Camus è “nietzschiano”?

Secondo Nietzsche, l’uomo non è libero, il libero arbitrio è una finzione. Capito questo concetto, e se si ama il proprio destino, si può allora individuare la beatitudine e la gioia. Nietzsche dice che bisogna dire “sì al mondo”, un grande “sì al mondo” essendo questa l’unica via per arrivare alla beatitudine, cosa che poi, secondo lui, definisce il Superuomo. Il Camus del primo periodo, cioè quello della giovinezza, dell’Algeria, condivide il pensiero di Nietzsche, pensa che si debba dire di sì al mare Mediterraneo, al sole, alla spiaggia, all’amicizia, al nuoto, che si debba dire un grande sì all’esistenza, perché è l’unica via per conoscere la beatitudine. Ma quando Camus lascia l’Algeria e arriva in Europa, in particolare in Francia, a Parigi, dove scopre il freddo, la miseria, la povertà, l’inverno ed i blocchi di ghiaccio che galleggiano sulla Senna, ma soprattutto quando scopre il fascismo, il nazismo ed i campi di concentramento, allora afferma che non si può più essere nietzschiani, che non si può più dire di sì alla vita: si può dire di sì a chi dice di sì alla vita, ma si deve dire di no a tutto ciò che dice di no alla vita. “L’uomo in rivolta” è quindi colui che dice di no, è colui che afferma che non si può dire di sì a tutto, che non si può dire di sì alla violenza, alla brutalità, ai campi di concentramento. Essere nietzschiano vuol dire questo: vuol dire di sì a tutto quello che la vita propone, invece essere nietzschiano di sinistra è dire di sì a tutto quello che dice di sì alla vita, ma dire di no a tutto quello che dice di no alla vita. Quindi, si può dire che il Camus del primo periodo è un nietzschiano nel senso ortodosso del termine, mentre il Camus della maturità è un nietzschiano di sinistra. Va tuttavia sottolineato che Camus non ha mai smesso di essere nietzschiano. Peraltro, il ritrovamento dopo il famoso incidente stradale, di un esemplare de La Gaia Scienza nella sua borsa ne è la conferma.


Lei parla di “gramscismo” di Camus. In che senso?

Il pensiero fondamentale di Gramsci che dobbiamo prendere in considerazione è che prima di conquistare il potere concretamente bisogna innanzitutto conquistarlo nelle menti, nelle coscienze, nell’intelligenza degli individui. Non si può fare la rivoluzione in un modo brutale, violento, non la si può imporre dall’alto, invece penso che la si possa sollecitare partendo dal basso, dall’educazione, ed il gramscismo significa proprio questo, cioè convincere della necessità della rivoluzione perché la gente possa prima acconsentire per poi farla senza che le venga imposta dall’esterno o dall’alto. Si ritrova quindi nel gramscismo una forma di fiducia nell’uomo, nell’educazione, nell’educabilità degli uomini, mentre il marxismo non crede nell’educazione degli uomini ed è convinto della necessità della rivoluzione violenta, imposta dall’alto e della dittatura del proletariato. Il gramscismo implica “l’educazionismo”, mentre il marxismo implica la violenza rivoluzionaria.

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Qual è la differenza tra la sinistra del risentimento e la sinistra dionisiaca?

La sinistra del risentimento non abbraccia i valori che si richiamano alla vita, i valori positivi, ma pende piuttosto per i valori negativi, cioè non vuole che i poveri diventino ricchi ma vuole che i ricchi diventino poveri. Questa sinistra del risentimento non si richiama tanto alla fratellanza, alla solidarietà, alla felicità del più grande numero possibile di cittadini, ma preferisce sbattere i ricchi in galera, metterli alla gogna, nei campi di concentramento o di rieducazione. Questo tipo di sinistra è la sinistra marxista leninista, la sinistra maoista, la sinistra stalinista, la sinistra di Robespierre, una sinistra che, di fatto, vuole vendicarsi, vuole vendicarsi dell’ordine del mondo.

Invece la “sinistra dionisiaca”, la sinistra libertaria, è una sinistra che vuole la felicità del più grande numero possibile di cittadini, senza pensare di doverla realizzare attraverso l’infelicità di alcuni. Non vuole un socialismo fondato sul filo spinato, sui campi di concentramento o sulla ghigliottina, ma semplicemente su una migliore ripartizione dei profitti, delle ricchezze, del danaro. Questa è la tradizione del socialismo libertario, ed è su questo punto che si evidenzia l’opposizione tra Marx e Proudhon. Marx si colloca nella sinistra del risentimento, vuole la morte del capitalismo e, per ottenerla, pensa che occorra farla finita con i capitalisti, mentre Proudhon vuol farla finita con lo sfruttamento, con quello che chiama “l’aubaine”, cioè la confisca della forza lavoro agli operai, e auspica, in una logica di mutuo soccorso e di cooperazione, che gli operai siano messi nella condizione di vivere nella dignità, nella decenza e con decoro. Secondo me, questa dicotomia sinistra del risentimento/ sinistra dionisiaca ha messo in opposizione per un paio di secoli un gran numero di sinistre.
Ad esempio, nel maggio del ‘68, i manifestanti che erano sulle barricate erano più in una logica dionisiaca, mentre il partito comunista francese continuava a collocarsi in una sinistra del risentimento. E’ l’eterna querelle che oppone ad esempio Sartre a Camus: Sartre è nella logica del risentimento, è favorevole alla pena di morte, ai tribunali rivoluzionari, pensa che nel 1793 non si siano decapitati abbastanza borghesi, mentre Camus ritiene che non ci sia bisogno di uccidere, di condannare a morte, per realizzare il socialismo al quale crede.

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Restiamo sulla querelle tra Camus e Sartre. Quali sono i nodi che, secondo lei, sollecitano lo scontro tra i due?

Si tratta dell’eterna lotta di classe, che si manifesta anche nell’ambito del socialismo. Abbiamo da una parte un borghese, un piccolo borghese, figlio di borghese, Sartre, uscito dall’ “Ecole Normale Supérieure”, docente di Filosofia, che vive nei bei quartieri di Parigi, e che conosce la miseria e la povertà attraverso le letture di Marx e lo studio della dialettica di Hegel. Risulta quindi evidente l’opposizione tra un Sartre benestante ed un Camus che non ha cattedra, che non ha studiato all’“Ecole Normale Supérieure”, che non è parigino, che proviene da una famiglia umile – figlio di un bracciante e di una donna delle pulizie – e che conosce la miseria non perché l’abbia scoperta nei libri ma perché l’ha scoperta nella vita. Sono quindi due modi totalmente diversi di affrontare il mondo. Sartre pensa il “reale” partendo dal concetto e dalle biblioteche, e per lui il proletariato è un idolo da venerare, cioè un concetto , mentre Camus pensa la miseria e la povertà nella concretezza. Però è evidente che Sartre, a Parigi, ha una force de frappe molto potente (è molto influente): possiede la rivista Les temps modernes, può contare su un grande numero di discepoli.
Dei discepoli che manda alla lotta, perché pensa in una logica di combattimento militare o paramilitare, che consiste nell’individuare nemici, avversari per distruggerli, assassinarli o neutralizzarli. Invece Camus è un uomo solo, non ha alcuna rivista a supporto e non ha discepoli o truppe da comandare. Sartre è uno che si propone come Stendhal, Chateaubriand o Spinoza, cioè vuole solo lasciare una traccia nella storia della letteratura e del pensiero. Sartre si serve del proletariato, mentre Camus si pone al servizio del proletariato, senza voler diventare un personaggio per lasciare un’ impronta nella storia, vuole soltanto rimanere fedele alla sua infanzia, al suo ambiente, a suo padre e a sua madre. Abbiamo quindi da un lato Sartre, esponente della borghesia opportunista che si serve del proletariato, e dall’altro Camus, un libertario, fedele alla propria infanzia, al proprio mondo, che vuole, perché è diventato un intellettuale, mettersi al servizio di chi non ha mai avuto la parola perché nessuno non gliela ha mai data.

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Camus viaggia nella sua vita di scrittore e ribelle tra la consapevolezza dell’assurdo del vivere e la rivolta. Come stanno insieme le due cose secondo Onfray?

Camus scopre l’assurdo attraverso le proprie esperienze personali, nel proprio corpo, sulla propria pelle, quando gli viene diagnosticato una tubercolosi. E quando si diagnostica una tubercolosi a 17 anni, una malattia quasi incurabile, si sa che non si vivrà a lungo. Quindi a 17 anni, quando la vita è bella, quando le ragazze sono belle e che la spiaggia è bella, che il sole è bello, quando si vive una vita magnifica e che di colpo ci si sente dire che si morirà presto, allora ci si chiede perché si nasce, perché si vive, cosa si deve fare della propria vita. Camus non scopre l’assurdo dell’esistenza leggendo Kierkegaard, ma scoprendo che morirà presto. Ha innanzitutto un’esperienza esistenziale dell’assurdo. Sartre ne ha invece un’esperienza esistenzialista, cioè scopre l’assurdo perché ha letto Kierkegaard, e l’ha letto perché Heidegger va di moda e che se ne parla. Questa era quindi la questione dell’assurdo.

Invece la questione della rivolta è un’altra cosa, pur sempre connessa, e consiste nel chiedersi cosa fare della propria vita quando si sa che sarà breve, che non durerà a lungo. Ci si può ribellare e Camus analizza le varie forme di rivolta: il dandismo, il terrorismo, il libertinaggio, il teatro, vari atteggiamenti come l’avventuriero, il viaggiatore. In questo modo si può tentare di dare un senso alla propria vita, ma Camus mantiene una certa riserva rispetto a questi percorsi, e sappiamo tutti come conclude il mito di Sisifo, dicendo che bisogna immaginare Sisifo felice, cioè che la nostra esistenza è assurda, che sospingiamo continuamente un grosso masso in cima ad una montagna, che ricade continuamente, ma che continuamente riportiamo su. E’ questo l’assurdo. Ma si può tuttavia immaginare Sisifo felice, Sisifo che in maniera nietzschiana dice di sì a quello che è. Si può davvero acconsentire al mondo dicendo un grande sì e cioè, sono tubercoloso, ho vent’anni, sto per morire, amo quest’esistenza, anche se si tratta di un’esistenza da tubercoloso. E questa era la rivolta esistenziale.

Poi però Camus affronta anche il tema della rivolta politica. Cioè che cosa si deve fare del mondo quando si è messi a confronto con la sua assurdità, nel momento in cui ne assumiamo una visione collettiva. A questo punto Camus afferma che si può essere socialista, hegeliano, comunista o rivoluzionario – ribadendo che il rivoluzionario è spesso il reazionario di domani e che è la sinistra del risentimento che detta legge – ma che è meglio essere in rivolta, avere come principali obiettivi un certo numero di ideali: libertà e giustizia. Camus afferma che la libertà senza la giustizia è una giungla, che la giustizia senza la libertà è un gulag e che entrambe sono indispensabili. Bisogna quindi ribellarsi contro tutti i progetti che escludono l’una o l’altra, perché abbiamo bisogno di entrambe. E’ questo ciò che chiamiamo un programma libertario.

La traduzione dell’intervista dal francese è a cura di [b]Corinne Lebrun[/b]
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