La doppia morte di Antonio Gramsci
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La doppia morte di Antonio Gramsci

S'intitola Il tradimento, il saggio di Mauro Canali che getta nuova luce sul ruolo di Togliatti nella morte del fondatore de L'Unità e nella mistificazione delle sue idee

La doppia morte di Antonio Gramsci
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11 Novembre 2013 - 13.44


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Accade talvolta che i titoli riescano efficacemente a dare la sintesi essenziale del testo cui si riferiscono. È il caso dell’ultimo lavoro di Mauro Canali, in uscita in questi giorni nelle librerie, “Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata” (Marsilio, 2013, E 19,50), con cui il docente dell’Università di Camerino viene ad aggiungersi a quell’ormai nutrita schiera di storici (Lo Piparo, Donzelli, Canfora, tra gli altri) che con le loro ricerche hanno ormai demolito il mito della continuità tra Gramsci e Togliatti sodali compagni di partito, sapientemente costruito da quest’ultimo.


Canali va anche più in là di chi l’ha preceduto. Con un’analisi attenta e rigorosa di documenti di nuova acquisizione e di altri disponibili da tempo, denuncia un vero e proprio tradimento di Gramsci da parte di Togliatti e una sistematica opera di occultamento della verità di cui responsabile non è stato solo “il Migliore”, ma tutta la storiografia ufficiale di partito. “Incolonnata dietro il pifferaio magico Togliatti”, essa ha taciuto sulle mutilazioni e sulle palesi censure operate da Togliatti sulla produzione gramsciana, anzi, per certi aspetti, se ne è fatta parte attiva così da poter condurre felicemente in porto la “togliattizzazione” di Gramsci.

Chiarito così, già in prefazione, quali siano i suoi bersagli polemici, Canali procede poi ad esaminare l’impressionante sequela di avvenimenti lungo la quale si è snodata per decenni l’opera del tradimento, che qui riassumiamo in grandi linee, rimandando alla lettura del libro.

La vicenda ha origini lontane, già nel 1923/24, allorquando Gramsci, mettendosi a capo della frazione centrista e invitando Togliatti a schierarsi con lui per salvaguardare l’unità del partito, irrimediabilmente diviso tra sinistra di Bordiga e destra di Tasca, ha l’amara sorpresa di sapere che Palmiro condivide invece la linea di Bordiga. Antonio gli scriverà di essere rimasto “profondamente impressionato e addolorato”.

Il contrasto torna a manifestarsi in termini molto più drammatici nel 1926. Nel partito bolscevico si sta combattendo una lotta mortale fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di Trockij, Zinovev, Kamenev. Preoccupato per le sorti dell’intero movimento comunista e convinto che l’egemonia andava conquistata con un dibattito franco e non con la sopraffazione dell’avversario, Gramsci scrive nell’ottobre due lettere all’intero CC del PCUS (cosicché anche la minoranza avrebbe potuto appellarvisi) in cui, pur dichiarandosi d’accordo con le posizioni politiche della maggioranza, raccomanda unità. Togliatti, rappresentante del partito a Mosca, nella convinzione che sia necessario schierarsi senza esitazioni con Stalin, con un atto gravissimo di ribellione al suo segretario, consegna la prima lettera solo a Bucharin, mentre tiene celata a tutti la seconda.

Gramsci ne ricevette una penosissima impressione dichiarata nello scambio epistolare intercorso tra i due, a seguito del quale fu decisa una riunione segreta in Valpolcevera. A causa dell’attentato di Bologna a Mussolini, G. ritenne più prudente non recarvisi e così gli altri membri della direzione non trovarono ostacoli nel dichiarare il loro pieno appoggio a Stalin, decretando di fatto l’inizio della segreteria di Togliatti che di quella linea era fautore e l’inizio dell’isolamento politico e umano di Gramsci.

Il quale, pochi giorni dopo, l’8 novembre, viene arrestato, in circostanze ancora oggi non del tutto chiare, che attestano come minimo l’inettitudine cospirativa del partito e lasciano sospettare probabili spiate. Comincia il dramma della carcerazione di Gramsci, nei confronti del quale il partito sembra mostrare scarsa sollecitudine. I primi a stabilire un contatto e a cercare di provvedere alle sue esigenze più elementari sono la cognata Tania Schucht e l’amico Piero Sraffa, mossi entrambi soltanto dai loro sentimenti personali e non già per un incarico del partito che per il secondo ci fu solo verso la fine del 1928. Tania, invece, era stata contattata a metà di quell’anno da un intermediario del partito, detto “l’ingegnere” o “Linge”, che solo ultimamente si è scoperto essere Riccardo Lombardi, il quale svolse probabilmente quel ruolo fin verso la metà del 1930.

Il primo importante contatto politico col detenuto Gramsci (e con Terracini e Scoccimarro) avvenne il 10 febbraio del 1928 e segnò in maniera indelebile il successivo modo di porsi di Gramsci nei confronti del partito e di Togliatti. Si tratta della famosa lettera inviatagli da Grieco che, inopportunamente, a istruttoria ancora aperta, in qualche modo rivelava quel ruolo di massimo dirigente del PCdI che Gramsci aveva sempre negato nei suoi tre interrogatori col giudice Macis. Comprensibilmente Gramsci si arrabbiò molto e definì “strana”, quella lettera prima che, nel tempo, l’incessante lavorio mentale sul reale significato di essa non lo inducesse a mutare questa definizione con altre più appropriate: “Atto deplorevole che rasentava la provocazione”, “il più grave atto d’accusa”, “famigerata”. “Criminale”, nella famosa lettera a Tania del 5/12/1932, in cui, dopo aver ricordato la frase del giudice istruttore (“onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”), ormai certo che l’ispiratore ne fosse Togliatti, continua col dire: “Può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere”.

Per Gramsci, la lettera di Grieco (e, dietro lui, Togliatti) aveva contribuito non solo alla condanna che gli venne inflitta a 20 anni da galera, ma anche al fallimento della prima delle tre trattative che, negli anni, si succedettero per arrivare alla sua liberazione. Questa prima, iniziata già nel 1927, consisteva in una proposta di scambio fra due sacerdoti detenuti in Russia da un lato, e Gramsci e Terracini dall’altro. Mussolini oppose un primo interlocutorio rifiuto, che diventò poi irrevocabile per la poca determinazione mostrata dai sovietici e per un’allusione di Grieco a “nuovi fatti” che poteva aver innervosito il duce, convincendolo che le trattative non intercorressero solo fra i governi ma che in esse vi si intromettessero anche i comunisti italiani.

Poco dopo, Gramsci ha occasione di constatare come il contrasto politico con Togliatti sia divenuto insanabile. Nel 1929, l’Internazionale comunista svolta su una linea che il Migliore sposa con zelo: il fascismo sarebbe prossimo al crollo, la socialdemocrazia ne è uno strumento, la rivoluzione torna all’ordine del giorno, classe contro classe. Antonio, in una serie di lezioni-conversazioni spiega ai compagni detenuti di Turi che invece il fascismo si stabilizza e non si possa che lavorare a un fronte antifascista sulla parola d’ordine dell'”assemblea costituente”. Ma quasi tutti si allineano col partito e con Stalin, lo guardano con sospetto e lo isolano.

Privato della solidarietà dei compagni, in precarie condizioni di salute, Gramsci non ha altro modo di partecipare alla lotta politica se non lavorando incessantemente alla sua ricerca. Ma intanto soffre terribilmente la detenzione, vorrebbe rassegnarvisi, ma non ci riesce. Così, dopo un periodo di forte scoramento, progetta di un secondo tentativo di liberazione che puntava da un lato ad ottenere la libertà condizionale, dall’altro a riproporre uno scambio di prigionieri. Un ruolo fondamentale avrebbe dovuto svolgerlo Mariano D’Amelio, zio di Sraffa e primo presidente di Cassazione, che in effetti si attivò, potendo di lì a poco disporre anche di un certificato medico che, attestando la drammatica crisi del detenuto intervenuta il 7/3/1933, ne giudicava necessario il ricovero in ospedale. Prima di essa, Gramsci era stato chiarissimo con Sraffa e Tania: “Gli amici italiani non devono assolutamente essere messi al corrente di ciò che si vorrà fare e non si si deve assolutamente scrivere su queste cose nulla”, “altrimenti questo facilmente subirebbe la fine del primo tentativo”. Entrambi avevano però contravvenuto, il primo informando dettagliatamente Togliatti, la seconda informando la sorella Giulia. Ma avvenne ben di più e di peggiore.

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Sraffa consegnò il certificato medico al centro estero del partito a Parigi che, non certo per caso o errore involontario, pensò bene di incentrarvi una campagna di propaganda condotta in tre articoli del quotidiano comunista l'”Humanitè”. Sraffa protestò insistentemente presso chi quella pubblicazione aveva autorizzato, cioè Togliatti, il quale si discolpò in una lettera. Fin troppo cautamente, Canali definisce “ambigua” la risposta per la quale andrebbero spesi ben altri aggettivi: mentre riconosce l’errore della pubblicazione (che sa benissimo equivalere a lasciare Gramsci in carcere, per di più in quelle gravissime condizioni di salute), si compiace del buon successo della mobilitazione.

Ovviamente, di libertà condizionale o di trasferimento in Russia non si poté più parlare, ma le condizioni critiche del detenuto indussero le autorità fasciste a trasferirlo a novembre nell’infermeria del carcere di Civitavecchia, poi a dicembre nella clinica Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all’esterno.

Solo al terzo tentativo Gramsci riuscì finalmente ottenere la libertà condizionale, ma ciò avvenne solo quando poté gestirlo lui stesso in prima persona. All’inizio del 1934 si avviò un’ennesima trattativa fra governi fascista e sovietico per uno scambio di detenuti, con le solite cautele e scarsa determinazione, ma era bastato perché Gramsci “entrasse in agitazione, temendo che ci potesse essere ancora qualche provocazione da parte del rappresentante del partito italiano a Mosca, il cui intervento è risultato essere la causa di molte conseguenze per lui e per altri.per questo chiedeva che non si dovesse propalare la notizia di un suo eventuale scambio.” E, puntualmente, la provocazione ci fu. Nell’agosto, Germanetto intervenne al congresso degli scrittori sovietici, invitandoli a mobilitarsi per la liberazione di Gramsci, capo del partito comunista italiano. Questa circostanza, unita alla mancanza di garanzie circa la futura attività del leader sardo qualora avesse raggiunto l’URSS, fecero naufragare definitivamente le trattative.

Ma intanto, il 24 settembre 1934, Gramsci aveva preso carta e penna e scritto a Mussolini: appellandosi unicamente a quanto previsto dalla legge e viste le sue condizioni di salute, chiese gli venisse concessa la libertà condizionale. Il duce acconsentì, purché la concessione del beneficio non fosse da attribuire a pressioni politiche e non divenisse oggetto di propaganda da parte sua.
Nell’agosto 1935, Gramsci raggiunse la clinica Quisisana di Roma, ormai in regime di semilibertà. Il 21 aprile 1937 finì di scontare la sua pena, ma era ormai in gravissime condizioni: morì sei giorni dopo, a quarantasei anni, di emorragia cerebrale. Dopo la cremazione, il giorno seguente si svolsero i funerali, cui parteciparono solo Tania e il fratello Carlo. Successivamente le ceneri vennero inumate nel cimitero acattolico di Roma.

Neanche la morte poté salvare Gramsci dall’opera del tradimento. Egli aveva comunicato a Tania le sue volontà: i Quaderni (sulla cui vicenda può utilmente concorrere anche Lo Piparo, L’enigma del quaderno, Donzelli, 2013) andavano consegnati in forma privata alla moglie, finché Sraffa non avesse espresso il suo parere sul modo migliore di ordinarli e di utilizzarli. In ogni modo essi non dovevano mai finire nelle mani di Togliatti. Il quale, invece, proprio tramite Sraffa, che aveva fatto prevalere la fedeltà al partito su quella all’amico, ne ebbe già nel 1938 copia di alcune parti. Poi, quando nell’aprile 1941 le sorelle Schucht consegnarono tutto il materiale agli archivi del Comintern, ne ebbe sostanzialmente quell’esclusivo possesso cui tanto aspirava. Ne nascose il contenuto alla sospettosa dirigenza staliniana e intanto cominciò a studiarli. Lo fece tra l’ottobre 1941 e la primavera 1943, in quell’esilio negli Urali cui il Comintern lo aveva condannato a seguito di un’inchiesta, che ora Canali è in grado di ricostruire nel dettaglio grazie a nuovi documenti provenienti dagli archivi russi.

Erano state le sorelle Schucht, superando l’ inerzia complice di Sraffa, a rivolgersi direttamente a Stalin e al Comintern, avanzando una serie di accuse: Gramsci lo considerava un doppiogiochista, uno sempre titubante, l’ispiratore della lettera di Grieco (che esse presentarono come prova), il boicottatore dei tentativi di liberazione, “il traditore la cui mano si era posata su di lui”; infine esse lo ritenevano negligente circa l’elaborazione dell’attività letteraria del congiunto. Dimitrov, segretario del Comintern, ritenne che ci fossero elementi tali da giustificare un’istruttoria che affidò alla Blagoeva, la quale già si era attivata interrogando Grieco.

Mantenendo, crediamo con qualche sforzo, l’aplomb dello storico, Canali parla dell’estate del1938 come di un periodo di cui in seguito Togliatti non avrebbe potuto gloriarsi. Richiamato a Mosca per apporre la sua firma sul decreto di liquidazione definitiva (da intendersi come fisica) del partito comunista polacco, Togliatti sta tornando dalla Spagna accompagnato dai dubbi dei dirigenti comunisti Diaz e Dolores Ibarruri sul suo comportamento nella guerra civile, al punto tale che la Pasionaria confiderà a Dimitrov di “sentire in lui qualcosa di estraneo, di non nostro, anche se non può dare a questo un fondamento concreto”.

Approfittando del suo temporaneo soggiorno moscovita, la Blagoeva ne raccoglie la deposizione sulla lettera di Grieco. Irresponsabilmente, Togliatti ne attribuisce la responsabilità all’influenza che su Grieco avrebbe esercitato la moglie di Terracini, al tempo in amicizia con una trockista. Stessa tattica per discolparsi del fallimento dei tentativi di liberare Gramsci dal carcere: responsabili ne sarebbero stati funzionari russi definiti quali nemici e spie, con quali conseguenze per la loro sorte è facile immaginare. Era il ricorso alla legge dell’ homo homini lupus, commenta Canali.

Riabilitatosi agli occhi di Stalin per il suo atteggiamento di massima lealtà e collaborazione, Togliatti ne diventa poi il fedelissimo emissario in Italia. Dove, a partire dal 1947, può finalmente cominciare la pubblicazione del lascito gramsciano, parte seconda dell’opera del tradimento e momento iniziale della rappresentazione mitica della storia del gruppo dirigente comunista, che Togliatti volle tutta incentrata – afferma Canali – sull’affermazione di “un assoluta e costante sintonia tra il pensiero di Gramsci e il suo. Iniziava l’operazione di manipolazione del pensiero gramsciano per adattarlo alle esigenze della Realpolitik togliattiana: cominciava a prendere forma il Gramsci di Togliatti”.

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Archivista esclusivo delle carte di Gramsci, avvalendosi della collaborazione del fidato Felice Platone e di una ristrettissima cerchia di familiari, Togliatti è il sapiente regista di un’operazione di rilascio che Canali ripercorre con dovizia di particolari. Qui ci si limita ad accennare che i 29 Quaderni (prima che Gerratana nel 1975 ne facesse un’edizione filologicamente corretta e integrale, sempre che non risulti verificata l’ ipotesi di Lo Piparo circa l’esistenza di un 30°) furono pubblicati con l’ omissione di alcuni nomi (p.e. Trockij) e sapientemente destrutturati, in modo da italianizzare al massimo Gramsci e di allontanare da lui ogni sospetto di eresia.

Quanto alle Lettere, esse vennero pubblicate nel 1947 in numero limitato (218) e mutilate di quelle che avrebbero potuto disvelare il dissidio fra lui e Gramsci, in primis quella già citata del 5/12/32 e le altre due richiamate appresso. Per un’edizione priva di censure bisognerà aspettare l’edizione Einaudi del 1965 con 428 lettere, e per una pressoché completa l’ edizione Sellerio del 1996 con 465 lettere.

Fortunatamente non tutto era sottoposto al rigido controllo togliattiano. Dall’archivio Tasca, dai familiari, da testimonianze di coloro che avevano incontrato Gramsci, dall’iniziativa di compagni non proni all’ortodossia di partito, da avversari politici cominciavano a filtrare sempre nuovi materiali. Con la morte di Togliatti nel 1964, si pensò che fosse ormai rimosso il più grande ostacolo all’accertamento della verità: uscì l’edizione Einaudi delle Lettere, Fiori scrisse la prima biografia di Gramsci, Spriano avviò una più equilibrata storia del PCI.

Ma il togliattismo si rivelò duro a morire, e del resto ancora oggi se ne vedono tracce. La storiografia e la cultura che ad esso si richiamano, morto il leader, si impegnò in sua vece nell’opera tenace di occultamento, secondo una strategia che Canali, documenti e circostanze alla mano, efficacemente descrive: ogni nuovo elemento suscettibile di mettere in discussione la versione ufficiale veniva (viene) accolto da un iniziale silenzio e poi giudicato con scetticismo, se ne smorzava l’impatto con un atteggiamento comunque giustificatorio dei comportamenti di Togliatti, si occultavano o confondevano le date. Su tutto aleggia “la gestione esclusiva che, delle carte Gramsci, da decenni hanno fatto, e continuano a fare, gli storici organici alla fondazione Gramsci, come se il grande intellettuale sardo non fosse ormai patrimonio universale, ma ancora patrimonio esclusivo di una fazione politica, ancorché nel frattempo dissoltasi”.

Cosa aggiungere a quanto sapientemente ricostruito da Canali? E’ evidente che in tutta questa drammatica vicenda, oltre la miseria degli uomini, è chiamata in causa un’intera cultura che sull’altare di “magnifiche sorti e progressive” si sente autorizzata a sacrificare non solo la verità, ma la dignità e la stessa umanità degli individui.

Non si tratta solo della violenza fisica brutalmente esercitata dallo stalinismo, ma di quella sottile violenza psichica che spezzetta, confonde le menti, fa star male, tende a far sparire. Si consideri questo fatto: di tutta la vicenda dell’isolamento di Gramsci a Turi si poté sapere solo nel 1964 col memoriale (che Togliatti possedeva già dal 1933) di un compagno di carcere, Athos Lisa. Ebbene: acutamente Canali nota che, in analogia con l’abitudine di Stalin di far sparire dalle vecchie foto le immagini imbarazzanti dei compagni eliminati, in quel memoriale il nome di Gramsci appare sistematicamente cancellato, come pure era stato cancellato fra i protagonisti della svolta del PCdI nel 1923/26, che Togliatti aveva ricostruito nel suo profilo politico compilato nel 1932 per il Comintern. Tendenza a far sparire, di cui Antonio Giolitti, fuoruscito dal PCI dopo i fatti d’Ungheria, ci dette poi un’immagine plastica allorquando, incrociando alla Camera i suoi vecchi compagni di partito, notò che essi non si voltavano dall’altra parte, ma semplicemente non lo vedevano: era diventato invisibile ai loro occhi.

Gramsci, vittima di questa cultura, ad essa è profondamente estraneo, in virtù della sua profonda umanità. Caso forse unico nell’intero panorama della III Internazionale, non sottopone i propri affetti al rigido vaglio della razionalità comunista. Li difende anzi, li grida nelle Lettere, non se ne vergogna. Ha repulsione per l’abiura, sopporta l’incomprensione dei compagni a Turi, giudica medievale l’istituto della confessione in vigore nei tribunali stalinisti. Dichiara la propria depressione, il proprio stato di frustrazione, il senso di abbandono, ma non se ne fa schiacciare, ne cerca l’origine indagando nella storia, nella politica, nella propria vicenda personale.

C’è una circostanza che forse non è stata finora abbastanza evidenziata e sulla quale vale invece la pena di soffermarsi. Se si è potuto sospettare che nella vicenda di Gramsci ci fossero molti punti oscuri da chiarire, è perché quel gracile, ma grandissimo uomo dalla indomita forza morale non soltanto è riuscito a liberarsi da solo dal carcere fascista, ma è anche riuscito a scoprire e denunciare chi ve lo aveva lasciato.

Tre famose lettere a Tania sono l’implacabile atto d’accusa a Togliatti, al PCdI, al PCUS. Quella del 19/5/1930: ” Quello che da me non era stato preventivato era l’altro carcere. Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo sopportarlo”.

Quella già citata del 5/12/32. Infine la lettera “esopica” del 27/2/33 (già illuminata dall’interpretazione di Lo Piparo sul doppio significato di Iulca quale nome reale della moglie di Gramsci e nome di copertura per alludere al PCUS) : “.è certo che in tutti questi anni ho sempre pensato a certi fatti (nel caso specifico alla serie di fatti che possono simbolicamente riassumersi nella famosa lettera di cui mi parlò il giudice istruttore di Milano) . oggi mi sono persuaso che nei miei rapporti con Iulca c’è un certo equivoco, un doppio fondo, una ambiguità che impedisce di veder chiaro e di esser completamente franchi: la mia impressione è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire, “una pratica burocratica” da emarginare e nulla più… La conclusione, per dirla riassuntivamente, è questa: io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale. Ma questo è un errore. Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna. Devo dire che tra ‘condannatori’ c’è stata anche Iulca, credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente”.

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Ebbene, Gramsci non avrebbe potuto scrivere queste lettere se prima, nel 1928, non avesse avuto una reazione istintiva alla famigerata lettera di Grieco: la trovò strana e lo fece inalberare. Quell’impossibile intuizione – lo “strano” percepito – difesa e non accantonata come molti ancora oggi lo inviterebbero a fare (buon ultimo Macaluso che in una trasmissione televisiva di pochissimi giorni fa, derubrica la lettera di Grieco a semplice errore privo di ogni intenzionalità), diventò poi negli anni la chiave per aprirgli la comprensione di ciò che Togliatti andava tramando alle sue spalle.


Tanto più istruttivo diventa quindi vedere come, al riguardo, si sia invece mossa la storiografia militante, anche se Canali, per carità di patria, preferisce usare il si impersonale. “Si è preferito tacere e qualche volta si è anche ricorso a improbabili modelli psico-antropologici che rimandavano alla paranoia del recluso ovvero alla “sarditudine” di Gramsci. Oppure si è andati a rovistare nella psiche del leader sardo, magari registrandone la condizione alterata dalla malattia e dallo stato di detenzione, adombrando. che fosse vittima di allucinazioni e paranoie tali da renderlo incapace di valutare con lucidità e obiettività la sua vicenda esistenziale”.

Tutto ciò suona a conferma di quanto la storiografia togliattiana sia comunque tetragona ad ogni rivelazione, anche se ormai è chiaramente sulla difensiva, attestata intorno alle due ultime casematte impossibili da abbandonare. La prima, che lasciamo alla valutazione del lettore, è che quanto ci può essere stato di non propriamente irreprensibile nel comportamento di Togliatti è riconducibile al realistico convincimento che l’essenziale fosse salvare i comunisti italiani dal terribile gorgo staliniano. Sulla seconda – Togliatti, pur con omissioni e censure, ha comunque salvato l’opera di Gramsci e ne ha fatto il fondamento teorico del partito nuovo che intendeva costruire – intendiamo invece soffermarci.

È vero. Togliatti avrebbe potuto agevolmente distruggere i Quaderni e le Lettere, peraltro col pieno assenso della dirigenza stalinista, se solo ne avesse rinfocolato gli antichi sospetti sull’eresia di Gramsci. Ma non lo fece e anzi ne promosse la pubblicazione. Perché?

Delle cinque motivazioni che Canali adduce, quattro sono riconducibili a ragioni opportunistiche: legittimarsi come fedele e convinto assertore del pensiero di Gramsci; presentarsi come suo naturale erede politico; dissimulare la costante fedeltà all’URSS dietro la parola d’ordine, mutuata dal gramscianesimo, della “via nazionale al socialismo”; far pian piano sparire, con la partecipazione al rito gramsciano, le responsabilità dell’intero gruppo dirigente nella compromissione con Stalin.

La quinta sembrerebbe la più nobile e disinteressata: ricorrere alla teoria di Gramsci per affrontare il tema della rivoluzione nei paesi occidentali. Ma, a nostro parere, anche qui si è consumato un ennesimo tradimento da parte di Togliatti, questa volta dovuto non a lucido calcolo, ma ad una reale impossibilità di comprensione. Lui, stalinista, era tragicamente e radicalmente privo di quelle caratteristiche umane e politiche tali da consentirgli un rapporto vero col pensiero di Gramsci. Credere che la teoria di Gramsci potesse essere separata dall’esperienza umana che l’aveva partorita, che si potesse essere gramsciani senza essere come l’uomo Gramsci equivaleva a ridurre il gramscianesimo a puro guscio vuoto, senza il fuoco vivo che l’animava.

Lo si può ben vedere nella traduzione togliattiana della proposta più originale del grande sardo: l’egemonia culturale. Essa, che per Gramsci comportava un confronto anche aspro, ma sempre dialettico e aperto alla comprensione profonda delle posizioni avverse, in Togliatti diventa riduzione degli intellettuali all’obbedienza chiesastica spegnendone ogni spirito critico e conquista di redazioni e case editrici. Come pure il confronto con la religione, che Gramsci aveva condotto per oltre venti anni nella convinzione che la conquista dell’egemonia non potesse prescinderne e che l’aveva portato (pur riconoscendo al cristianesimo tutto quello che poteva aver avuto di positivo nel corso della storia) all’affermazione di una totale inconciliabilità del socialismo con essa, diventa in Togliatti cedimento alla Chiesa cattolica – inaugurato dall’inserimento in Costituzione di quel Concordato su cui Gramsci aveva speso parole di fuoco – e avvio dell’infausto percorso catto-comunista di cui oggi si vedono con evidenza i frutti malati.

Si era persa un’opportunità storica. Si comprenderà, allora, come nel leggere la definizione che Canali fa dei Quaderni dal carcere come “un monumento filosofico-politico che avrebbe permesso al pensiero socialista di emanciparsi dalla scolastica del marxismo-leninismo-stalinismo”, si venga presi da un misto di sentimenti (rimpianto, rabbia, indignazione, dolore) che, non ce ne voglia l’autore, riteniamo da lui condivisi.

Ma il suo lavoro è al tempo stesso uno dei tanti segnali di questo periodo (non ultimo il generoso tentativo in atto di risollevare le sorti di quell’Unità fondata proprio da Gramsci nel 1924) che aiuta ad uscire dallo sconforto e spinge ad approfondire la ricerca, mossi ormai da una consapevolezza che va sempre più radicandosi che lì, nello scontro tra Gramsci e Togliatti, si sia consumato qualcosa di decisivo per le sorti della sinistra non solo italiana e che da lì, ripristinata la verità, occorra ripartire per ricostruirne l’identità perduta, se non addirittura per costruirne una del tutto nuova.

Giampiero Minasi

Il libro di Mauro Canali “Il tradimento. Gramsci Togliatti e la verità negata”, sarà presentato a Roma il 22 novembre alla libreria Arion-Esposizioni da Sonia Marzetti per la serie di incontri gramsciani promossi dal Gruppo storia dell’associazione Amore e Psiche.[/size=3]

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