Siria, oltre 15mila civili morti sotto tortura nelle prigioni di Assad: il rapporto
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Siria, oltre 15mila civili morti sotto tortura nelle prigioni di Assad: il rapporto

Non dimenticare un paese ridotto in macerie. Per non dimenticare un popolo a cui un dittatore sanguinario ha dichiarato guerra Una guerra che ha mietuto centinaia di migliaia di vittime, in stragrande maggioranza civili.

Siria, oltre 15mila civili morti sotto tortura nelle prigioni di Assad: il rapporto
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

29 Giugno 2023 - 19.28


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Siria, per non dimenticare. 

Non dimenticare un paese ridotto in macerie. Per non dimenticare un popolo a cui un dittatore sanguinario ha dichiarato guerra Una guerra che ha mietuto centinaia di migliaia di vittime, in stragrande maggioranza civili.

Senza pace

“Solo perché ho documentato le atrocità in Siria per il Syrian Center for Media and Freedom of Expression il regime di Assad mi ha fatto sparire con la forza e mi ha torturato ogni giorno per nove mesi, anche con scosse elettriche, percosse con manganelli e cavi elettrici, abusi verbali, privazione di cibo, medicine e sonno. Non ho mai visto la luce del sole né mi è stato concesso un minuto fuori dalla mia cella sotterranea. Oggi, il danno delle torture che ho subito sembra molto più grande di quando sono stato rilasciato”. Sono le parole con cui Mansour al Omari, vittima di tortura, LLM in Giustizia di Transizione e consulente di Reporters sans Frontières in Siria ha commentato la ricorrenza del 26 giugno, Giornata Internazionale in supporto delle vittime di tortura, istituita dalle Nazioni Unite con la soluzione 52/149 del 12 dicembre 1997.


Per il dodicesimo anno consecutivo il Syrian Network for Human Rights, Snhr, ha pubblicato un rapporto sulla situazione in Siria Secondo quanto emerge dal documento, dal 2011, anno in cui sono iniziate le proteste antigovernative, represse poi nel sangue dando inizio alla guerra, oltre 15mila persone sono morte in Siria sotto tortura o a causa di negligenza medica all’interno delle prigioni. Tra le vittime ci sono 198 bambini e 113 donne. Il rapporto fa luce su un gran numero di episodi di tortura e resoconti di sopravvissuti alla tortura di ex prigionieri, nonché episodi di morte dovuti a tortura che sono stati documentati nell’ultimo anno, dal 26 giugno 2022. Sono nell’ultimo anno i casi registrati sono 62.Alla luce di questi fatti la legge n. 16 che criminalizza la tortura, promulgata dal regime siriano il 30 marzo del 2022, “non ha senso”, si legge nel documento.

Oggi, oltre 155mila persone sono ancora detenute e/o fatte sparire forzatamente per mano delle parti in conflitto e delle forze di controllo in Siria. Il regime siriano, secondo quanto emerge dal report del Snhr, è responsabile dell’88% di tutti i casi di sparizione forzata. Il report evidenzia che la stragrande maggioranza di questi detenuti sono prigionieri politici, detenuti nel contesto della rivolta popolare, e sottoposti a una o più forme di tortura per anni. Tra i responsabili di questi crimini ci sono poi le formazioni terroristiche dell’Isis e di Hayat Tahrir al Sham, Hts, ma anche fazioni di opposizione come il Syrian National Army, Sna le Syrian Democratic Forces, Sdf, e altre formazioni combattenti.

“Questo rapporto arriva in un momento in cui alcuni Stati arabi hanno deciso di ripristinare i rapporti con il regime siriano. Vogliamo che questo rapporto dimostri a quegli e ad altri Stati che il regime siriano sta ancora praticando i metodi più orrendi di tortura contro donne, bambini e tutte le vittime arbitrariamente detenute”, ha commentato Fadel Abdul Ghany, direttore esecutivo del Snhr.

Senza scuole

Dopo quasi 12 anni di crisi, in Siria oltre 2,4 milioni di minori sono fuori dal sistema scolastico. Di questi il 40% è rappresentato da bambine, la categoria più vulnerabile. In generale quasi un minore su 5 in età scolastica non frequenta alcun tipo di attività formativa, e quasi 3 milioni di loro vive in aree rurali.

È l’allarme lanciato da WeWorld, organizzazione che da 50 anni lavora per i diritti di donne, bambine e bambini in 27 Paesi del mondo. Uno dei fattori principali che ostacola il rientro a scuola è la mancanza di edifici scolastici, distrutti dagli anni di guerra sul territorio e dal terremoto che lo scorso febbraio ha colpito il nord del paese.  “Affrontare l’emergenza educazione in Siria è sempre più urgente considerando che è un settore che ha sofferto sin dall’inizio della crisi siriana nel 2011”, afferma Claudia Oriolo, rappresentante Paese in Siria per WeWorld. 
    Nel Paese l’organizzazione lavora principalmente su educazione in emergenza e accesso all’acqua potabile, assicurando un accesso sicuro e inclusivo all’educazione a migliaia di bambine e bambini. 
Con la coalizione “Campagna Globale per l’Educazione” di cui è parte, WeWorld chiede al Governo italiano di impegnarsi a proteggere e promuovere il diritto all’educazione anche in contesti di emergenza e crisi protratte, contribuendo con almeno 15M€ totali per i prossimi 4 anni al fondo globale delle Nazioni Unite Education Cannot Wait (ECW). 

Riammesso al tavolo

Scrive Andrea Vivalda nel suo blog s ilfattoqutidiano.it: “Condannato dalla Storia, senza contare la marea di accuse contro di lui depositate nelle cancellerie della giustizia umana, Bashar al-Assad, lo scorso 19 maggio, è stato riammesso con tutti gli onori e senza condizioni in seno alla comunità dei Paesi arabi, dalla quale era stato cacciato nel 2012: un anno dopo lo scoppio della guerra civile. I 500 mila morti, le città distrutte, i 13 milioni di profughi, interni o fuggiti all’estero, le torture, le sparizioni, i massacri, insomma, la tragedia in cui a partire dalla primavera del 2011 ha precipitato il suo popolo non sembrano aver provocato in lui alcun pentimento. Né i governanti arabi convocati per assolverlo hanno osato chiedergliene conto e ragione. Forse perché sarebbe stato facile ribattere che alcuni di loro erano stati fra i promotori di quell’immane carneficina.

Quello che, invece, è parso subito manifesto nella seduta della Lega araba – convocata a Gedda per la cerimonia del colpo di spugna sulle responsabilità del dittatore siriano verso il suo popolo – è stata la ferma determinazione del padrone di casa e architetto dell’operazione, l’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman (o MbS, come viene chiamato sui giornali), a trasformare l’evento in una vetrina delle sue ambizioni personali. Le quali, in questo caso, si riassumono nel voler dimostrare al sospettoso alleato americano, decisamente contrario alla normalizzazione dei rapporti con la Siria, che adesso è lui, il principe trentasettenne diventato il regnante di fatto dell’Arabia Saudita, a decidere le sorti del Medio Oriente. Il parallelo invito al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, con annessa offerta di mediazione tra Mosca e Kiev, sarebbe dovuto servire a supportare la sua nuova immagine di promotore di pace su scala globale.

Considerato dall’amministrazione di Joe Biden un alleato temerario e poco affidabile, macchiato dall’accusa di aver ordinato, nel 2018, l’uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, MbS ha saputo cogliere l’occasione della guerra in Ucraina per assumere un ruolo centrale al cospetto di un Occidente assetato di idrocarburi e costretto a liberarsi dalla dipendenza dal petrolio russo. Sul piano politico-diplomatico, non meno che su quello economico, il principe saudita ha – altro segno d’insubordinazione rispetto al protettore di Washington – aperto alla Cina in Medio Oriente. Ma, soprattutto, ha cercato di isolare i suoi grandiosi progetti di sviluppo economico e tecnologico – contenuti nel piano “Vision 2030”, il cui obiettivo strategico è di liberare il Paese dalla dipendenza dal petrolio come unica fonte di ricchezza – dalle tensioni e dalle dispute che rendono la regione uno dei crateri attivi dell’instabilità globale.

La svolta nella politica estera di Riyad nasce in questo contesto. Con un semplice giro di orizzonte, Mohammad bin Salman ha visto l’Arabia saudita circondata da forze ostili legate all’Iran: in Iraq, Qatar, Libano, Siria e nello Yemen, dove da otto anni Riyad è impegnata in una costosissima guerra contro la tribù sciita degli Houthi, vicini a Teheran. Parallelamente, è cresciuta la sua diffidenza verso la volontà di Washington di scendere in campo a difesa degli alleati arabi contro l’espansionismo iraniano.

È in questo contesto di crisi concatenate, ma riconducibili alla contesa per il primato tra le due potenze politiche, militari e religiose della regione, Arabia Saudita e Iran, che MbS mette in atto la sua svolta. Con l’aiuto della Cina in versione di mediatrice e, dunque, ancora una volta alle spalle degli americani, Riyad e Teheran ristabiliscono, dopo dieci anni di gelo totale, piene relazioni diplomatiche. Il principe, che voleva portare la guerra a casa degli ayatollah e considerava la Rivoluzione khomeinista la causa di tutti i problemi che affliggono il mondo arabo, dice adesso: «L’Iran è nostro vicino per sempre e non potremo sbarazzarci l’uno dell’altro».

Se l’accordo mediato dalla Cina può aiutare l’Arabia Saudita a trovare una dignitosa via d’uscita dallo Yemen (negoziati con gli Houthi per la pace sono in corso), la contropartita chiesta da Teheran a MbS è stata secca: Siria e Libano, i due più importanti territori del risiko iraniano. Sono state le milizie sciite che Teheran è capace di mobilitare da Bagdad a Beirut, senza trascurare la minoranza afgana degli Hazara, congiuntamente all’intervento della Russia di Vladimir Putin, a salvare il trono di Bashar al-Assad minacciato dalla guerra civile. Da allora, l’Iran ha goduto in Siria di una notevole libertà di movimento, osteggiata soltanto da Israele.

Ora è arrivato il momento di pareggiare i conti, riammettendo il rais siriano nel consesso arabo, ufficialmente per favorire il ritorno nelle loro case (distrutte) dei quasi sei milioni di profughi disseminati tra Turchia, Libano e Giordania e per permettere una più efficace assegnazione degli aiuti umanitari alla popolazione sconvolta non solo dalla guerra, ma anche dal recente terremoto al confine con il Nord della Turchia.

Quanto al Libano, terreno di scontro primordiale tra milizie e schieramenti divisi fra Teheran e Riyad, così come tra Washington e Parigi, si tratta di risolvere la devastante crisi economica e politica in corso dal 2019, consentendo al Partito di Dio, Hezbollah – sciita e alleato di Teheran, le cui milizie armate sono state decisive nell’invertire il corso della guerra siriana a favore di Assad – di mantenere la sua rendita di posizione in seno al governo libanese, senza suscitare scandalo nelle capitali occidentali. La “magia” di MbS è consistita nel far accettare la riabilitazione di Assad anche a quei Paesi arabi come Qatar, Kuwait, Giordania e Marocco che si erano detti contrari. Potenza della diplomazia del petrolio”.

D’altro canto, aggiungiamo noi, tra “macellai” dei diritti umani ci s’intende.

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