C'è un Paese in cui si combatte e si muore per la libertà al canto di Bella ciao: l'Iran
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C'è un Paese in cui si combatte e si muore per la libertà al canto di Bella ciao: l'Iran

Capelli biondi, senza velo, raccolti in uno chignon, pronta ad affrontare la repressione della polizia. Con questa immagine immortalata Hadith  Najafi, simbolo delle manifestazioni contro il regime

C'è un Paese in cui si combatte e si muore per la libertà al canto di Bella ciao: l'Iran
Hadith Najafi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Settembre 2022 - 21.16


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C’è un Paese in cui si lotta e si muore per la libertà. Un Paese nel quale come canto di resistenza risuona, in parsi, “Bella ciao”. Un Paese nel quale la rivolta è declinata al femminile. Quel Paese è l’Iran.

In memoria di Masha

Capelli biondi, senza velo, raccolti in uno chignon, pronta ad affrontare la repressione della polizia. Con questa immagine immortalata in un video girato nel corso delle proteste in Iran scoppiate dopo l’uccisione della 22enne Mahsa Amini, ragazza curdo-iraniana morta in custodia dopo essere stata arrestata dalla “polizia morale”, Hadith  Najafi era diventata uno dei simboli delle manifestazioni contro il regime degli ayatollah.

Aveva solo 20 anni e sabato sera, secondo quanto riferiscono numerosi account Twitter che seguono le proteste, è stata uccisa dalle forze di sicurezza iraniane a Karaj, vicino a Teheran. Secondo quanto circola sugli account Twitter, la ragazza è stata raggiunta da sei colpi di proiettile al petto, al viso e  al volto. In mattinata la Bbc ha reso nodo che la “ragazza con la coda” nel video virale  non è Hadith Najafi, morta a Karaj. Resta il fatto che una giovane donna è sta uccisa. Resta il fatto che continua a salire paurosamente il bilancio delle vittime della repressione delle proteste: 41 morti, tra cui dimostranti e forze dell’ordine, secondo il regime; almeno 54 per la Ong Iran Human Rights, che ha sede a Oslo.La repressione ha preso anche la forma degli arresti, oltre 700, mentre sono 1.200 le persone identificate, riporta l’agenzia semi-ufficiale Tasmin. In manette sono finiti anche i reporter: secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), almeno 17 sono stati fermati dall’inizio dei moti di protesta. Una situazione di allerta che il regime teocratico intende contenere. Per questo il capo del potere giudiziario iraniano ha sottolineato “l’urgenza di una risposta che sia decisa e senza indulgenza” contro gli istigatori dei “disordini”. Una richiesta in linea con quanto annunciato dopo nove giorni di manifestazioni anche dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, che ha chiesto alle forze dell’ordine di agire “con fermezza” contro i dimostranti, aizzati a suo dire dagli occidentali. Ciò spiega anche la mossa del ministero degli Esteri di Teheran che ha convocato gli ambasciatori di Regno Unito e Norvegia per denunciare le “interferenze” da parte di questi Paesi negli affari interni della Repubblica islamica. Le autorità sperano inoltre che limitando l’accesso a Internet si riescano a controllare o prevenire le azioni dei dimostranti in rivolta contro decenni di oppressione.

Solidarietà ai giovani iraniani è giunta oltre che dall’Europa – con l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell che ha condannato “l’uso diffuso e sproporzionato della forza contro manifestanti non violenti” definendolo “ingiustificabile e inaccettabile” – anche dagli Usa. Ultimo in ordine di tempo il consigliere nazionale per la Casa Bianca, Jake Sullivan, che a Nbc news ha detto che gli Stati Uniti “sono accanto agli iraniani che chiedono un futuro migliore”. Vicinanza ai rivoltosi anche dalle principali piazze mondiali, dal Canada agli Stati Uniti, dal Cile all’Europa. Un’empatia che si è espressa anche e soprattutto nei simboli, come il canto in persiano di ‘Bella ciao’, intonato da una giovane iraniana e diventato virale sui social. Inizialmente condiviso dall’account @Gandom_Sa007, nel video compare una ragazza che interpreta la canzone partigiana diventata un simbolo universale di resistenza in tutto il mondo.

L’appello di un grande regista

Sono il regista Asghar Farhadi.

Avrete ascoltato le recenti notizie dall’Iran e visto immagini di donne progressiste e coraggiose che guidano le proteste per i loro diritti umani insieme agli uomini. Lottano per diritti semplici ma fondamentali che lo Stato nega loro da anni. Questa società, in particolare queste donne, ha attraversato finora un percorso duro e doloroso e ora ha raggiunto un punto di riferimento”.   Inizia così il video appello del regista iraniano, premio Oscar per Il cliente e Una separazione, rivolto agli artisti e agli intellettuali di tutto il mondo perché si mobilitino in segno di solidarietà verso il suo popolo. 
    “Le ho viste da vicino queste notti. La maggior parte di loro – sottolinea il regista – è molto giovane: diciassette anni, vent’anni. Ho visto indignazione e speranza nei loro volti e nel modo in cui marciavano per le strade. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà e il diritto di scegliere il proprio destino nonostante tutta la brutalità a cui sono soggette. Sono orgoglioso delle donne potenti del mio Paese e spero sinceramente che attraverso i loro sforzi raggiungano i loro obiettivi. Attraverso questo video, invito tutti gli artisti, i registi, gli intellettuali, gli attivisti per i diritti civili di tutto il mondo e tutti i Paesi, e tutti coloro che credono nella dignità umana e nella libertà, a essere solidali con le donne e gli uomini potenti e coraggiosi dell’Iran, in video, per iscritto o in altro modo”. Segnali che possono “rafforzare ulteriormente la speranza dell’Iran di raggiungere questo obiettivo bellissimo e fondamentale che stanno cercando in un Paese in cui senza dubbio le donne saranno le pioniere delle trasformazioni più significative. Per un domani migliore”, conclude.

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Caccia all’icona del calcio

I Pasdaran stanno danno la caccia a un’icona del calcio, un personaggio molto popolare, schieratosi con le proteste in corso nel Paese. È Ali Karimi, ex capitano della nazionale di calcio iraniana. Ha utilizzato i suoi sostenitori sui social – 11,6 milioni di follower su Instagram – per coinvolgerli nella causa a fianco delle migliaia di manifestanti per le strade. «I nostri figli stanno morendo mentre i figli dei funzionari del regime lasciano l’Iran, ma chi resta rischia la morte», ha commentato.

L’Unione popolare dell’Iran islamico, che è legata all’entourage dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami, ha chiesto alle autorità di aprire la strada alla «cancellazione della legge sull’hijab obbligatorio» e che la Repubblica islamica annunci «ufficialmente la fine delle attività della polizia morale» e «autorizzi manifestazioni pacifiche». È un primo cedimento alla rivolta, alimentata dall’indignazione e dalla voglia di giustizia, come testimonia una ragazza che intona sui social la canzone di «Bella ciao» in persiano. Il video diffuso su Twitter è diventato un inno alla resistenza del popolo iraniano.

Ma la repressione e le intimidazioni del regime vanno avanti. Il Ministero degli Esteri iraniano ha convocato l’Ambasciatore britannico e quello norvegese a Teheran per il «carattere ostile» della copertura dei disordini da parte dei media in lingua persiana con sede a Londra. Poi è arrivato anche l’appello del regista iraniano premio Oscar per «The Client» e «Una separazione» Asghar Farhadi. In un video destinato alla comunità internazionale, agli artisti e agli intellettuali di tutto il mondo perché si mobilitino in segno di solidarietà verso il suo popolo ha spiegato: «La maggior parte di loro è molto giovane: diciassette anni, vent’anni. Ho visto indignazione e speranza nei loro volti e nel modo in cui marciavano per le strade. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà e il diritto di scegliere il proprio destino nonostante tutta la brutalità a cui sono soggette. Mobilitiamoci per il popolo dell’Iran, le donne guideranno il cambiamento. Per un domani migliore».

La denuncia di Amnesty International

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Amnesty International ha chiesto ai leader del mondo, riuniti in questi giorni all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, di appoggiare le richieste per lacostituzione di un meccanismo internazionale e indipendente d’inchiesta che affronti il clima d’impunità dominante in Iran.

Un’iniziativa del genere, ha affermato l’organizzazione per i diritti umani, è resa ancora più necessaria dalla morte, nelle mani della polizia morale, della 22enne Mahsa Amini e dalla repressione delle successive proteste, che ha causato almeno otto morti e centinaia di feriti.

Amnesty International ha raccolto prove sull’uso illegale della forza da parte delle forze di sicurezza iraniane, che hanno impiegato pallini da caccia e di metallo, gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e manganelli per disperdere le proteste.

La nuova ondata di repressione attualmente in corso ha coinciso col discorso del presidente iraniano Ebrahim Raisi alle Nazioni Unite:

“Gli è stata data la parola su un palcoscenico globale, nonostante le credibili prove del suo coinvolgimento in crimini contro l’umanità [in relazione al massacro delle prigioni del 1988]”, ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International.

Nel corso delle proteste del 19 e 20settembre nelle province del Kurdistan, di Kermanshah e dell’Azerbaigian occidentale, Amnesty International ha verificato l’uccisione di sei uomini, di una donna e di un minorenne. Almeno quattro delle vittime sono state uccise da pallini di metallo esplosi da distanza ravvicinata e diretti alla testa o al petto.

Almeno altre due persone hanno perso la vista da uno o da entrambi gli occhi. Centinaia di manifestanti, minorenni compresi, hanno subito dolorose ferite equivalenti a maltrattamenti o tortura a causa dell’uso illegale dei pallini da caccia o di altre munizioni.

Le autorità hanno confermato le morti di tre persone nella provincia del Kurdistan e quelle di altre due persone in quella di Kermanshah ma, coerentemente con la loro politica di negazione e insabbiamento, le hanno attribuite ai “nemici della Repubblica islamica”.

Esaminando i filmati disponibili e ascoltando le testimonianze oculari, Amnesty International è giunta alla conclusione che le proteste nelle tre province sono state prevalentemente pacifiche. Talvolta alcuni manifestanti hanno lanciato pietre contro le forze di sicurezza e danneggiato loro veicoli. Ma questo non giustifica in alcun modo l’uso di pallini di metallo, che sono vietati in ogni circostanza.

Le forze di sicurezza hanno eseguito violenti arresti, anche di minorenni, durante le proteste del 19 settembre e nelle successive irruzioni notturne nelle abitazioni. Un testimone oculare ha riferito di aver vistodecine di manifestanti arrestati nella città di Kamiyan, pieni di sangue e con fratture al capo, al naso o alle braccia.

Amnesty International proseguirà le sue ricerche, indagando sulla repressione delle proteste in altre zone dell’Iran, tra cui le città di Hamedan, Rasht, Shiraz, Tabriz e Teheran.

Un articolo da incorniciare

E’ quello scritto per Il Foglio da Tatiana Boutourline. “Cinquanta chili o poco più, è questo il peso del coraggio in Iran e si direbbe un peso da niente, se non fosse che nei giorni di rivolta che stanno scuotendo l’Iran è proprio questo il fardello che opprime la nomenklatura khomeinista, il peso piuma di giovani donne che ballano e ridono e muoiono con i capelli al vento. Fanno così paura che chi racconta le loro storie viene arrestato, poiché non c’è bisogno di manifestare per finire nei guai in queste ore a Teheran, è sufficiente ripetere i loro nomi, pubblicare i loro volti.

È accaduto alla giornalista Nilufar Hamedi, che ha descritto l’orrore subito dalla ventiduenne Mahsa Amini, e alla fotografa Yalda Moayeri, che ha documentato lo strazio dei suoi genitori nel corridoio asettico di un ospedale. E sta succedendo lo stesso a chi parla della morte di Hannaneh Kia a Nowshahr, o di Ghazale Chelavi ad Amol. Fanno così paura queste ragazze che le autorità offrono laute ricompense alle famiglie che le piangono in cambio del silenzio. Fanno paura al punto che ieri è stato mobilitato l’esercito: polizia, milizie bassiji e pasdaran evidentemente non bastavano. Nel frattempo è stata organizzata una contromanifestazione pro regime ad Isfahan, per l’ennesima volta i collegamenti internet sono stati interrotti e i social network sono rimasti inaccessibili per gran parte della giornata. 

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Fa così paura il coraggio delle ragazze iraniane che il mondo si è accorto di loro. Ha imparato il nome di Mahsa Amini, la “mal velata” arrestata il 13 settembre e deceduta a seguito delle percosse il 16, e l’ha trasformata in un hashtag popolarissimo da compulsare, e intanto fioccano le dichiarazioni accorate e la stampa internazionale si indigna e si commuove, anche in maggior misura di quello che è accaduto in occasione di altre ribellioni, perché è difficile immaginare una piazza più fotogenica, una piazza più struggente, intensa e vitale di quella in cui una giovane donna sfida un fucile agitando i capelli nel vento. 

Sotto sotto però gli analisti alzano e riabbassano le spalle. E sembra di sentire il suono dei loro pensieri, la rassegnazione di quando si dicono: poverine le schiacceranno come mosche. Perché li abbiamo già sentiti. 
“Sono solo studenti”: era il ’99 e quelli che manifestavano erano universitari; “sono solo monarchici” hanno detto nel  2003; “sono solo borghesi”, hanno alzato le spalle nel 2009; “sono solo i nuovi poveri esasperati dal carovita”, nel 2017 e nel 2018 e così nel 2019 e nel 2020.

“Sono solo infermiere, solo operai, solo conducenti d’autobus, solo pensionati, solo ambientalisti, solo contadini”. Possibile? Centinaia di migliaia di morti che suscitano solo rassegnazione. Rassegnazione, cliché e viltà. Quella iraniana è una protesta acefala, vincerà la repressione, perché la rivolta non esprime leader carismatici e perché la sproporzione delle forze in campo è schiacciante, non lo vedete? Vincerà la repressione, quindi meglio non esagerare, conteniamo i mullah, agganciamoli a qualche negoziato, che sia sul nucleare o altro.

Perché nelle cancellerie occidentali tutti gli occhi sono puntanti su Mosca e Kiev e nessuno si augura l’ennesimo sconquasso, a maggior ragione in quello che è spesso definito come il vicinato più pericoloso del mondo. “Non è il momento”, sussurrano in troppi senza il coraggio di confessare che ai tempi del senso di colpa collettivo e degli estenuanti dibattiti sull’identity-politics temono di spendersi per valori che in troppi hanno paura a definire universali. Non sia mai che li definiscano islamofobi. 

Solo in Iran si seguita a credere. Credono in un futuro diverso le ragazze peso-piuma che sfidano la polizia morale e ci credono i loro padri e i fratelli, i mariti e gli amanti. Ci credono e gettano benzina sull’asfalto per far sbandare le motociclette dei miliziani, ci credono e assaltano le volanti che sparano, ci credono e strappano i manifesti di Ebrahim Raisi, picconano le statue di Ali Khamenei ed i murales in onore di Qassem Suleimani. Ci credono perché la Repubblica islamica non impara dai suoi errori, è diventata una cricca di bande che sanno solo distruggere. 

Le ragazze lo sanno e combattono lo stesso, a mani nude, con i capelli al vento, combattono gridando “donna, vita, libertà”. Lo fanno perché il cambiamento pare sempre impossibile fino a un attimo prima di diventare inevitabile, perché come ha ricordato ieri la giornalista della Bbc Sima Sabet: “Le prigioni del regime non sono grandi abbastanza da contenere ottanta milioni di iraniani”.

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