Cartoline dall'inferno di Gaza: così muore la speranza, così si annienta la bella gioventù
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Cartoline dall'inferno di Gaza: così muore la speranza, così si annienta la bella gioventù

Quindici anni di blocco totale. Una condizione disumana. A 15 anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, ancora 2,1 milioni di persone vivono reclusi, in quella che di fatto è una prigione a cielo aperto.

Cartoline dall'inferno di Gaza: così muore la speranza, così si annienta la bella gioventù
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24 Giugno 2022 - 12.11


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Racconti dall’inferno di Gaza. Dove a morire è anche la speranza. Il tutto, nel silenzio complice di una comunità internazionale imbelle, o connivente, con un crimine di guerra, perché di ciò si tratta quando si fa riferimento alle punizioni collettive inflitte da Israele alla popolazione civile della Striscia. Un crimine riconosciuto come tale dal diritto internazionale, da quello umanitario e dalla stessa Convenzione di Ginevra sulla guerra. Crimini di guerra e, per alcuni aspetti, contro l’umanità.

Quindici anni di blocco totale. Una condizione disumana. A 15 anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, ancora 2,1 milioni di persone vivono reclusi, in quella che di fatto è una prigione a cielo aperto. Un’intera generazione di giovani palestinesi, oltre 800 mila, hanno trascorso la loro intera vita in questa situazione, senza conoscere nient’altro.

È la denuncia lanciata da Oxfam alla vigilia del quindicesimo anniversario dall’inizio delle restrizioni imposte sulla Striscia, di fronte ad una situazione di cui non si intravede nessuna soluzione negoziata tra le parti, nonostante gli sforzi umanitari sostenuti dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che fino ad oggi hanno stanziato 5,7 miliardi di dollari in aiuti.

#OpenUpGaza15: una campagna per ridare speranza

Partirà nei prossimi giorni #OpenUpGaza15, una campagna di sensibilizzazione per restituire speranza a una generazione che rischia di perderla per sempre. Basti pensare che il 63% dei giovani a Gaza non riesce a trovare lavoro e 4 ragazze su 5 non hanno un’occupazione retribuita.

“Molte restrizioni israeliane hanno ragioni politiche, non certo di sicurezza. Le famiglie palestinesi di Gaza subiscono collettivamente una punizione illegale –aggiunge Pezzati – Israele impedisce l’esportazione di pasta di datteri, biscotti e patatine fritte, ha interdetto l’uso del 3G e del 4G sui cellullari, non c’è PayPal. Certamente questo non è un paese per giovani.”

Le storie dei giovani perduti di Gaza

La campagna #OpenUpGaza15 racconterà la storia di 15 ragazzi, le privazioni quotidiane, gli ostacoli, le difficoltà con cui devono fare i conti per vivere e coltivare i propri interessi.

Come quella di Ahmad Abu Dagga che a 15 anni è bravissimo in scienze, ma teme che finirà la scuola senza aver mai visto un microscopio; o quella di Alaa Abu Sleih, 23 anni, nato con una disabilità, che quando si è rotto il pannello dei comandi della sua sedia a rotelle non ha potuto averne uno nuovo, mentre le gomme si stanno consumando e non sa come riuscirà a muoversi.

Vi racconto la morte della gioventù

Di straordinario impatto emozionale, oltre che politico, è lo scritto su Haaretz di Shiren Falah Saab.

“Non ho mai lasciato Gaza e non ho nemmeno un passaporto. Faccio parte di una generazione che non conosce una realtà diversa da quella di una Gaza chiusa. Sono cresciuta con le notizie sull’apertura e la chiusura dei checkpoint e con le storie di pazienti che non potevano uscire per ricevere cure mediche. Sono cresciuto all’ombra della vita in una prigione, mio padre e altre persone della sua generazione mi hanno raccontato di come uscivano a mangiare e del tramonto a Jaffa.

“Non sono mai riuscito a immaginarlo. Per me questi sono sogni. Noi, membri della generazione che vive sotto assedio, vediamo come i giovani in altri luoghi del mondo progrediscono e si sviluppano. A noi viene negata anche solo la possibilità di pensare a tali opportunità. Non abbiamo mai provato l’emozione di andare in un aeroporto. Siamo stati esposti ai normali aerei solo attraverso lo schermo televisivo. Conosciamo bene gli F-16 e i droni”.

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Queste descrizioni sono state fornite all’organizzazione per i diritti umani Gisha da Thazem al-Jaouni, 23 anni, designer grafico. Aveva sette anni quando Israele impose l’assedio alla Striscia di Gaza dopo l’ascesa di Hamas. Le sue parole sono state trasmesse nell’ambito del progetto dell’organizzazione di raccogliere testimonianze di giovani palestinesi in occasione del 15° anniversario dell’assedio. La situazione a Gaza è molto deprimente. La maggior parte di coloro che hanno un’istruzione superiore non riesce a trovare lavoro e vive sotto l’occupazione, l’assedio, la divisione politica e l’instabilità. Ogni pochi anni c’è una guerra che uccide le persone e distrugge le case e la terra, e con esse i loro sogni e le loro speranze. Questo non significa che dobbiamo arrenderci e non aspirare a una realtà migliore, ma a Gaza anche il tuo sogno dipende dalle restrizioni israeliane: non c’è quasi nessuna opportunità di lavorare fuori dalla Striscia e di progredire. “I sogni che avevo quando ero a scuola stanno scomparendo di fronte a una situazione che non posso controllare. Voglio essere libera e avere l’opportunità di fare esperienze e provare cose, di viaggiare e divertirmi, di lasciare Gaza e tornarci. Ho paura di ottenere un passaporto e di viaggiare da sola, perché non l’ho mai fatto prima. Sento parlare delle sofferenze provate dalle persone ai valichi e ho paura anche di questo”. Già nel 2008 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva pubblicato una dichiarazione di condanna di Israele, chiedendo di togliere l’assedio alla Striscia, di consentire la fornitura di cibo, carburante e farmaci e di riaprire i valichi di frontiera. Da allora Gaza si è trasformata in una grande prigione per milioni di palestinesi. Non c’è da stupirsi che l’espressione “Andate a Gaza” sia la risposta degli arabi di tutto il mondo; è così che gli israeliani vedono Gaza: un luogo ostile i cui abitanti meritano una punizione collettiva.

Con il meccanismo della repressione che fa gli straordinari tra gli israeliani, e nonostante il silenzio fastidioso o pretestuosamente ragionato sull’assedio, dopo 15 anni è arrivato il momento di smettere di reprimere il fatto che Israele, nonostante il disimpegno, è una potenza occupante che gestisce Gaza a distanza, controllando gli spostamenti dei suoi abitanti e imponendo sanzioni economiche e civili.

Con rammarico dei gazesi, essi non possono nemmeno “beneficiare” dello status di popolazione civile occupata, con tutto ciò che questo comporta in termini legali e internazionali, poiché Israele non è fisicamente presente a Gaza. Questa dinamica “rimane anonima” e da parte israeliana ci si è abituati a convivere con essa e a reprimerne l’esistenza.

Forse la via più semplice è quella di affermare che a Gaza “non c’è nessun partner”, presumibilmente in contrapposizione alla Cisgiordania. All’ombra delle operazioni militari e dei razzi che vengono lanciati di tanto in tanto, è facile per la parte israeliana continuare a giustificare le sanzioni e l’assedio. In realtà, questa atmosfera non fa che perpetuare una situazione terribile e distruttiva, in cui le persone nascono in queste circostanze e non hanno quindi alcuna conoscenza di una vita che non sia sotto il controllo straniero.

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L’assedio è l’aspetto più estremo e represso del dominio di Israele sul popolo palestinese. Il fatto che sia condotto a distanza, senza un contatto diretto che richieda una sorta di rendiconto morale, è ciò che permette agli israeliani di continuare a dire “Andate a Gaza”, conclude così Falah Saab

Essere bimbi a Gaza

I bambini di Gaza – rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati – sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 10 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività”.

La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità.

“Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità”, dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.

Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età.

Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone.

I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti.

La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti.

 Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.

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Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia ha dichiarato che “a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire”.
Secondo Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori Occupati: “per i bambini un evento del genere mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia”.
Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni. Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima soffre di PTSD.
“Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’Onu Mohamed Shokri, 12 anni.

L’evento-guerra, ovviamente, è il più traumatico per il bambino. Tutto il sistema sensoriale è allertato e colpito profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari; vedere soldati, armi, spari, persone uccise; sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria.

Un anno dopo dall’operazione “Piombo Fuso”, Amal, 10 anni, portava con sé, ovunque vada, due foto di suo padre e di suo fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è bella senza di loro”, spiegava Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio destro.
Il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico.

Fu trovata quattro gironi dopo l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era una dei 15 sopravvissuti. Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima della guerra del 2014, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente e “non va al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre.

Le parole di una animatrice del Ciss (Cooperazione internazionale Sud Sud) descrivono bene i sentimenti dei bambini: “I bambini nei loro racconti, spesso fanno riferimento alla guerra. Dopo che abbiamo fatto il gioco delle sagome, abbiamo notato che i bambini riconoscono i loro occhi e le loro orecchie come punti di debolezza nel loro corpo, spiegando che con gli occhi vedono le distruzioni e con le orecchie sentono il bombardamento.

Invece per quanto riguarda i punti di forza, i bambini rispondono, le gambe perché ci aiutano a fuggire e le mani perché ci aiutano a nascondere la faccia”.

Queste testimonianze risalgono a quattro anni fa. Oggi le cose sono peggiorate.

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