Una patria per i palestinesi, Noury: "Israele crede che per avere più sicurezza bisogna negare i diritti"
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Una patria per i palestinesi, Noury: "Israele crede che per avere più sicurezza bisogna negare i diritti"

l diritto ad una Patria per un popolo sotto occupazione: il popolo palestinese. Globalist ne discute con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia. 

Una patria per i palestinesi, Noury: "Israele crede che per avere più sicurezza bisogna negare i diritti"
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Maggio 2022 - 18.09


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Il diritto ad una Patria per un popolo sotto occupazione: il popolo palestinese. Globalist ne discute con Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia. 

Sostenere un popolo, quello ucraino, che lotta per mantenere libera la sua Patria, è cosa buona e giusta. Ma perché ciò non vale anche per un popolo, quello palestinese, a cui una Patria è da sempre negata?

La comunità internazionale affronta una crisi per volta. I mezzi d’informazione seguono una crisi per volta. L’opinione pubblica segue una crisi per volta e poi ci sono le crisi che non sono seguite mai. In questo caso, quello palestinese, stiamo parlando dell’ultima categoria, purtroppo.

Nel mondo, in cui sono aperte oggi 167 aree di conflitto, c’è solo un popolo sotto occupazione. Il popolo palestinese. Come la mettiamo?

La mettiamo col fatto che non c’è mai stato in questi decenni un focus sui diritti dei palestinesi e ci si è concentrati sull’esigenza di sicurezza da parte d’Israele. Che sarebbe un’esigenza del tutto legittima se poi non venisse portata avanti a scapito dei diritti. E’ come se in quella zona di mondo si applicasse da decenni un falso paradigma…

Vale a dire?

Che per avere più sicurezza bisogna negare i diritti. 

Non sitiamo parlando “solo” di una situazione di occupazione di territori, definiti come tali, cioè sotto occupazione, da almeno due risoluzioni delle Nazioni Unite. Stiamo parlando anche di territori in cui Israele sta di fatto istituzionalizzando un regime di apartheid. Su questo Amnesty è stata sempre in prima fila nel denunciarlo…

Il 1° febbraio abbiamo pubblicato il risultato di una ricerca durata tre anni. Che partiva dalla premessa di quanto ormai fosse diventato insufficiente analizzare ogni singolo episodio di violazione dei diritti umani alla luce o del diritto internazionale ordinario o alla luce del diritto umanitario nel caso delle ripetute operazioni militari condotte da Israele contro la Striscia di Gaza. Ci siamo resi conto che questo era insufficiente. E quindi abbiamo analizzato la situazione da un’altra lente, che è quella del crimine internazionale di apartheid. Che non è una definizione politica né storica. E’ una definizione giuridica. E siamo giunti alla conclusione che quel sistema, che va avanti da decenni, di dominazione, oppressione, spossessamento di terre e altri beni fondamentali, di normative discriminatorie e altro ancora, ha un solo nome per il diritto internazionale. Ed è, appunto, apartheid.

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Amnesty ha denunciato questa situazione nel rapporto a cui hai fatto riferimento e in tanti altri ancora, cosa che è stata fatta anche da importanti personalità internazionali, premi Nobel, ex presidenti Usa, come Jimmy Carter, e da agenzie delle Nazioni Unite. La butto giù brutalmente: perché non c’è stata una volta, anche soltanto una, che questa pratica sia stata sanzionata? 

Perché non c’è un arbitro indipendente in tutta questa situazione. Ci potrebbe essere se alla giustizia internazionale ci si credesse un po’ di più. Ma Israele è il primo a non sottoporvisi. E la comunità internazionale che in questo non è imparziale ma è schierata in favore d’Israele, viene meno a un dovere, che è quello di far rispettare le risoluzioni Onu, le indagini del Tribunale penale internazionale…E’ cose se, usando una metafora calcistica, ci fosse un incontro fra due squadre, una gioca in undici, l’altra in cinque, e l’arbitro è a favore di quella che gioca in undici. Il risultato qual è? Finirà sei  a zero, dieci a zero.

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Si parlava di crimini. Ha suscitato una grande eco internazionale l’uccisione della reporter di al Jazeera in Palestina, Shireen Abu Akleh. Israele, attraverso le sue autorità giudiziarie militari, ha dichiarato chiuso il caso. Ma un mondo dove ancora dovrebbe avere un senso la parola “diritti” come quella “giustizia”, può accettare una cosa del genere?

Non potrebbe e non dovrebbe accettarla. Purtroppo era facilmente prevedibile che non ci sarebbe stata alcuna inchiesta. Non ce ne sono state in passato e se si continua a utilizzare quella formula di “tumulti”, degli “scontri”, non si va avanti. Aggiungo due cose: la prima è che Shireen era una cittadina statunitense e quindi se il presidente Biden volesse occuparsi di accertare tutte le responsabilità dell’uccisione di una sua cittadina, farebbe soltanto una cosa buona oltre che doverosa. La seconda, è che noi dovremmo fare una riflessione che va al nodo del problema: Shireen non sarebbe stata uccisa, la sua bara non sarebbe stata profanata, lei non sarebbe stata a Jenin, i soldati israeliani non sarebbero stati lì e da Jenin probabilmente non partirebbero neanche uomini armati palestinesi per compiere attentati in Israele, se non ci fosse l’occupazione. E’ lì il problema. E’ nel ’67 e non nel 2022.

Amnesty è parte del movimento pacifista e solidale. Un movimento che perora, oltre che pratica, la disobbedienza civile e la non violenza. Ma se in aree del mondo segnate dall’oppressione e dall’ingiustizia, come la Palestina, si pratica la disobbedienza civile e la resistenza non violenta, per il mondo, e per una colpevole informazione mainstream, chi pratica questa resistenza non esiste, resta invisibile. Salvo poi tornare ad esistere quando pratica la lotta armata o usa il suo stesso corpo come strumento di morte. Esisti, dunque, solo se vieni percepito come minaccia?

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E’ proprio questa la trappola in cui non si dovrebbe cadere. Al di là del fatto che è comunque inaccettabile che si uccidano civili. E questo vale per una parte ma vale anche per l’altra. Se si accetta questa trappola, per cui si fa notizia soltanto quando si fa violenza, questa trappola nuocerà alla popolazione palestinese. E’ una nostra responsabilità, di noi movimenti per i diritti umani, di voi giornalisti, degli organismi delle Nazioni Unite per i diritti umani, contribuire a fare in modo che questa trappola sia schivata. Tra l’altro, la nuova relatrice Onu su Israele e Territori occupati, Francesca Albanese, nostra connazionale, sta iniziando a fare un lavoro enorme. Dobbiamo avere fiducia nell’operato della giustizia internazionale. Esistono, e vanno utilizzati al meglio, quei strumenti che non presuppongono la violenza ma presuppongono una forte iniziativa politica. E poi appoggiare, per quel che possiamo, i movimenti palestinesi ma anche israeliani che si oppongono all’occupazione, alla violenza. Purtroppo in questi ultimi anni la criminalizzazione della solidarietà ha raggiunto anche Israele, colpendo le Ong israeliane. E’ su questo che dobbiamo lavorare, non nel proporre ipotesi diverse. Perché le stagioni in cui si facevano attentati, o si dirottavano aerei o si sequestravano navi, sono stagioni che è bene non ripetere.

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