Il ricordo di monsignor Romero, il vescovo scomodo
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Il ricordo di monsignor Romero, il vescovo scomodo

Il prelato ucciso dai killer degli squadroni della morte, era il simbolo di tutto un popolo, ma anche un “avversario” per la Chiesa di Roma. Ora con Francesco sarà Santo.

Il ricordo di monsignor Romero, il vescovo scomodo
Oscar Romero
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7 Marzo 2018 - 15.56


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di Flavio Fusi
La prima immagine che si mostrò ai nostri occhi, all’ingresso del remoto villaggio salvadoregno di Perquin, fu il grande murale dedicato a Monsignor Oscar Arnulfo Romero, che i guerriglieri del Fronte Farabundo Martì avevano dipinto su una parete bianca del municipio. Era la primavera del lontano 1988, e il volto dell’ arcivescovo di San Salvador vegliava sui territori che la resistenza armata aveva strappato al controllo dell’ esercito, sulla sierra di Morazan, ai confini con l’ Honduras.


Romero, ucciso dai killer degli squadroni della morte, era il simbolo di tutto un popolo, ma anche un “avversario” per la Chiesa di Roma: una figura scomoda – segretamente detestata – dal Pontificato “combattente” di Karol Woytila.
Anche il papa polacco aveva fatto la sua scelta di campo. Nel marzo dell’ 83, in visita nella Managua sandinista, nella ribollente Piazza della rivoluzione, aveva rudemente ammonito padre Ernesto Cardenal, monaco trappista, poeta, e ministro del governo nato dalla rivolta contro il dittatore Anastasio Somoza.


A quel plateale rimprovero era seguita la scomunica e la sospensione a divinis di tanti religiosi impegnati a fianco dei sandinisti: i gesuiti confratelli del rettore dell’ Università del CentroAmerica, Xavier Gorostiaga, il combattivo padre Miguel d’Escoto, i due carismatici fratelli Cardenal. Incombeva sulla loro testa il “peccato mortale” della teologia della liberazione, la militanza religiosa e politica a fianco del popolo in armi e contro le dittature dell’ America Latina.
Diversa la vicenda di Monsignor Romero. Il mite Primate della chiesa cattolica del Salvador pagò con la vita il suo semplice ma inflessibile impegno pastorale, la sua disarmata difesa delle vittime della violenza e della povertà. Anche la sua morte era un simbolo: ucciso da un killer sull’ altare, al termine dell’ omelia pronunciata davanti a un pugno di fedeli nella piccola cappella dell’ ospedale della divina provvidenza, a San Salvador.


Per più di trenta anni quel sacrificio è rimasto come un “pensiero molesto”, una macchia indelebile sulla lontana burocrazia ecclesiastica del Vaticano. Oggi un grave torto è stato riparato, oggi questo martire misconosciuto si avvia a diventare beato.


Il pontificato di Francesco dà i suoi frutti, non solo nell’ affermazione di una nuova spiritualità della Chiesa, ma anche nella pietosa rilettura della storia e delle sue tragedie. Già negli anni passati era stata ritirata la sospensione a divinis per padre Migule D’ Escoto – anziano ex ministro del governo sandinista – che aveva chiesto di poter tornare a celebrare messa negli ultimi anni della sua vita.


Il mondo è cambiato, dai giorni di Perquin. In Salvador, in Nicaragua, i fuochi sono ormai spenti. L’addio alle armi, l’ ingresso al governo di molti ex guerriglieri, non ha riscattato la vergogna della miseria, il marchio sanguinoso dell’ esclusione, della violenza contro gli indifesi. Oggi l’avvio del processo di beatificazione per l’ arcivescovo martire di San Salvador sana una lunga e dolorosa ferita. Ed è significativo che a compiere questo atto di profonda giustizia sia il Papa venuto dal “fin del mundo”, un figlio della lontana America Latina.

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