Il frate 'santo' degli Innuit era un molestatore seriale: la verità a 25 anni dalla morte
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Il frate 'santo' degli Innuit era un molestatore seriale: la verità a 25 anni dalla morte

Alexis Jovenau per quarant'anni ha vissuto nelle comunità del Nord canadese, abusando di razzi e ragazze, di donne e bambini, tra omertà e paura

Padre Alexis Jonùvenau
Padre Alexis Jonùvenau
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Diego Minuti Modifica articolo

30 Novembre 2017 - 13.19


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Per quarant’anni per loro, gli appartenenti ad una comunità di Inuit, del Nord del Canada, lui non era un dio, era ”Dio in terra”. Un ”Dio”, padre Alexis Joveneau, che li guidava in ogni loro attività, tanto che, dall’esterno, tutti ne lodavano l’impegno evangelico, l’amore con cui accudiva il suo gregge, intravedendo in lui il segno della santità.  Ma ci sono voluti venticinque anni, dalla sua morte, per convincere molti di loro a parlare ed a rivelare quello che era veramente padre Alexis, un molestatore sessuale seriale, che non faceva distinzione tra bambine e bambine tra ragazze e ragazzi, un aguzzino che piegava tutti ai suoi perversi desideri, giocando sul suo carisma e sulla forza dell’intimidazione.

Ma non è stata una denuncia a se stante, non c’è stata una presa di coscienza. A dare corpo ai ricordi ed agli incubi ad essi legati sono stati i lavori della Commissione che, in Canada, sta cercando di fare luce sulle violenze che, da decenni, subiscono le donne delle comunità autoctone. E’ stato parlando in generale del problema che sono venute fuori le prime accuse, poi sempre di più, che hanno demolito l’immagine di quello che sino a ieri veniva proposto come esempio della missione della Chiesa cattolica, del suo amore verso gli ultimi. Solo che padre Alexis questo amore lo intendeva a modo suo, stracciando la dignità delle sue vittime.
Padre Alexis Joveneau, missionario belga degli Oblati di Maria Immacolata, visitò per la prima volta gli Innuit Unamen Shipu e Pakua Shipi nel 1953. Aveva un carattere forte e tendeva ad imporre agli altri le sue idee. La padronanza della lingua Innuit lo favorì su altri che lavoravano nelle comunità del Nord in quel periodo, facendosi promotore di iniziative per sollecitare i governi a garantire lo sviluppo delle comunità Unamen Shipu e Pakua Shipi.
Alexis Joveneau, come la maggior parte dei membri della congregazione degli Oblati all’epoca, cercava di civilizzare gli Innuit a tutti i costi. Tutti i mezzi erano buoni, comprese le strategie matrimoniali. Padre Joveneau aveva un disegno sottile e perfido: fece sposamamente qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica. Ha detto di essere “profondamente preoccupata e angosciata” dalle prove e “intende collaborare pienamente all’Inchiesta nazionale sulle donne e le ragazze indigene scomparse e assassinate”.re gli uomini della comunità di Unamen Shipu con le ragazze di quella di Pakua Shipi.”È così che si è progressivamente sviluppata la strategia di deportazione e delocalizzazione”, afferma l’antropologo Laurent Jérôme.

Una presenza immanente, ingombrante che si è estesa per oltre quattro decenni.
Ma oggi chi ne ha subito le violenze ha trovato i coraggio di svelare il suo calvario. Come Simone Bellefleur e Noëlla Mark, della Unamen Shipu, che si sono unite al coro delle donne che dicono di essere state abusate sessualmente da Alexis Joveneau. Il racconto è stato quasi identico. Padre Joveneau invitava i bambini a sedersi sulle sue ginocchia durante la confessione e cominciava ad accarezzarli, inequivocabilmente.
Noëlla Mark ha anche detto che uno dei nipoti, all’epoca un bambino, le confessò di avere subito le stesse molestie. Ogni occasione era buona per padre Joveneau. Simone Bellefleur ha detto di essere stata abusata, una delle tante volte, quando il sacerdote le aveva chiesto di andare a casa sua per lavare i piatti.
Ma perché nessuno denunciò quanto accadeva nelle comunità Innuit? Lo ha spiegato Simone Bellefleur: anche se avessi rilevato le violenze su altre donne e bambini della comunità, nessuno mi avrebbe creduto. Anzi mi avrebbero detto di non parlare male di un prete.
Altri membri della comunità, ha detto ancora Simone, ci dicevano di lui ”è Gesù stesso. Questa è la risposta che ci è stata spesso data quando eravamo giovani”.
Diversi testimoni hanno ringraziato la Commissione d’inchiesta per aver permesso loro di raccontare le loro storie. “Non ho paura di parlarne oggi e non sono imbarazzata a condividere con voi quello che ho subito. Voglio guarire”, ha detto Noella Mark parlando degli abusi subiti come di una malattia.
In una dichiarazione, la Congregazione dei Missionari Oblati di Maria Immacolata ha condannato fermamente qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica. Ha detto di essere “profondamente preoccupata e angosciata” dalle prove e “intende collaborare pienamente all’Inchiesta nazionale sulle donne e le ragazze indigene scomparse e assassinate”.

 

 

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