Isis, la distruzione di al Nouri segna la fine del sogno del Califfo nero
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Isis, la distruzione di al Nouri segna la fine del sogno del Califfo nero

La moschea al Nouri, di Mosul, è la stessa in cui, nel 2014, tre anni fa, venne annunciato da al Baghdadi la nascita del Califfato.

Al Baghdadi nella moschea di al Nouri a Mosul
Al Baghdadi nella moschea di al Nouri a Mosul
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Diego Minuti Modifica articolo

23 Giugno 2017 - 15.36


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Il sogno di un califfato, i cui vessilli neri dovevano svettare dall’antica Babilonia sino alle sponde dell’Atlantico, è durato tre anni (molti o pochi, difficile dirlo) ed oggi le sue bande di attentatori suicidi, decapitatori, fustigatori, stupratori sono in rotta in quel che resta dell’Isis.
Ma a fare notizia è la distruzione della grande moschea al Nouri, di Mosul, la stessa che, nel 2014, appunto tre anni fa, assistette all’annuncio di al Baghdadi della nascita del Califfato. Un discorso dai toni aulici, pronunciato dall’autoproclamatosi califfo dal minbar (il pulpito delle moschee) di un luogo storico e, insieme, simbolicamente molto importante. Una apparizione comunque affatto inattesa perchè Abubakr al Baghdadi (oggi 46/enne, iracheno, Ibrahim Awes al Badri al Samarra il suo vero nome), un passato di guerrigliero di piccolo cabotaggio e di studioso dell’Islam non certo fine ed analitico, aveva saputo imporsi nel radicalismo islamico come uno dei pochi a potere tradurre in un progetto politico ambizioso la propensione espansionistica dell’Islam,
politico-territoriale piuttosto che religiosa.
Ospite delle carceri statunitensi in Iraq di camp Bucca e camp Adder fino al 2004, al Baghdadi ha saputo tessere la sua personale trama di potere prima dentro al Qaida poi, intuendone il lento ed inesorabile declino delle sfere politica e militare, al di fuori, creando la base ideologica per arrivare alla realizzazione del suo sogno, costituire un califfato a somiglianza di quelli che animarono i primi passi terreni dell’Islam.
Ora, però, quella moschea divenuta il simbolo dell’Isis per i suoi accoliti, della massimizzazione della cattiveria umana per il resto del mondo (islam moderato compreso) non esiste più, rasa al suolo dagli stessi miliziani di al Baghdadi, ormai in fuga e ben coscienti dell’impossibilità di resistere all’avanzata dell’esercito iracheno e dei suoi potenti alleati.
In un ultimo tentativo di giustificare la perdita della moschea, l’Isis ha usato i suoi media per dire che al Nouri è stata bombardata da aerei americani, che quindi si sarebbero macchiati dell’ennesimo peccato di empietà. Una tesi risibile perché mai i vincitori hanno perso l’occasione di ritrarsi e farsi ritrarre negli edifici e nelle costruzioni simbolo di una guerra.
Lo ricordano le immagini dei soldati russi che issano la bandiera dell’Urss sul quel che restava del Reichstag o i marines che piantano quella americana sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima appena liberata dai giapponesi; lo ricordano, in tempi più recenti, gli scatti che ritraggono i vincitori delle stanze della reggia di Muammar al Khaddafi, a Tripoli, e l’abbattimento della statua di Saddam Hussein a Bagdad.
Nessuno si priva della possibilità di umiliare il nemico anche dopo la sconfitta. E cosa è più seducente del ritrarre le stanze e i simboli del potere sfregiate da soldati e soldatesche?
Ai miliziani dell’Isis la distruzione della grande moschea al Nouri è una sanguinosissima ferita autoinferta, ma necessaria per evitare l’ennesimo rovescio mediatico del califfato che, oltre al territorio, perde anche consensi nell’islam che conta (Arabia Saudita in testa) perché ha cercato di attaccare uno dei cardini di qualsiasi istituzione statuale, il potere, al di la se lo si amministri in modo illuminato o autoritario.
Oggi però non si può escludere che, da qui a qualche anno, dell’Isis si parlerà ancora, ma per le imprese criminali dei suoi affiliati, ridottisi ormai ad una ottusa ricerca del sangue, affidata a incompetenti manovali del terrore, ma pur sempre potenzialmente letali.
Dell’uomo intabarrato in nero, dall’eloquio piano e non certo trascinante e con al polso un orologio che, per l’incertezza sulla marca, ha dato adito a sarcastiche considerazioni (era un Rolex? Forse, ma che differenza con il Timex da pochi dollari dello ieratico Bin Laden) , non si hanno notizie attendibili da settimane. E’ forse in fuga oppure ha trovato sicuro asilo, non si sa. Ma oggi quelle pietre che testimoniano la cancellazione della grande moschea al Nouri, non sono solo lo sfregio alla Storia dell’Islam, ma anche il segnale che il sogno del Grande califfato, del regno in terra della sharija, è rimasto tale.

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