Atai Walimohammad, storia di un profugo afghano (seconda parte)
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Atai Walimohammad, storia di un profugo afghano (seconda parte)

La seconda parte del racconto di Atai Walimohammad, un profugo afgano raccontata da Cesare Gigli.

Atai Walimohammad, storia di un profugo afghano - Immagine dal web
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15 Maggio 2017 - 21.17


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di Cesare Gigli

2 – Walimohammad e l’Italia (Leggi la prima parte del racconto)

Lo spirito di Walimohammad – soprattutto lo spirito, che è la sua risorsa più importante, quella che gli ha consentito di passare attraverso una vita fino adesso così difficile, riuscì ad arrivare in Italia. Il viaggio, avventuroso, tragico e disperato come tutti i viaggi di questo tipo, durò mesi. lui stesso non sa dire quanto. Partì con i propri risparmi e con quanto la madre gli diede, parte dell’eredità. Dall’Afghanistan passò per l’Iran, dove fu arrestato, per la Turchia, dove gli fu rubato tutto quello che aveva, e per la Grecia, dove cercò “per tante volte”, dice, di viaggiare nascosto sotto i TIR.

Quando riuscì nell’impresa, si accorse di essere stato per 22 ore sotto uno di questi mostri stradali. Non sapeva dove era, né quando il TIR si sarebbe fermato. Ed allora bucò il tubo della benzina. Il conducente a quel punto si accorse che qualcosa non andava, scese, e vide questo ragazzo correre. Gli urlò dietro qualcosa del tipo “Dove vai! Cosa fai!”, ma Walimohammad correva.

Correva verso l’ignoto, letteralmente e non solo come figura retorica. Materialmente non sapeva dove era. Alla fine, riuscì ad entrare in un CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo). Era quello di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia. CARA che è noto alle cronache per le rivolte che ci sono state nel 2015 e nel 2016, ma che all’epoca era ancora in condizioni accettabili, con una popolazione che era il 75% della capienza massima, e senza la baraccopoli esterna.

Il suo carattere, lo “spirito”, appunto, era sempre quello, e cominciò la sua personalissima integrazione a cominciare proprio dalle persone del CARA.

E’ forse superfluo dirlo, ma esiste molta più differenza culturale all’interno di centri come quello di cui stiamo parlando che non all’esterno di essi. In un CARA grande come quello pugliese, convivono diverse nazionalità ed etnie con storie anche di conflitti, e far convivere tutti sotto lo stesso tetto non è per nulla semplice. Ma Walimohammad non era certo tipo da farsi scoraggiare: usando lo sport come veicolo (giocava spesso e volentieri a calcio ed a pallavolo) riuscì a fare amicizia con tutti. Ed a dimostrazione di quanto le differenze culturali siano profonde all’interno di un Centro, sono le stesse parole che lui ci dice: “ho fatto amicizia con tutti! Iraniani, pakistani, iracheni, curdi e africani”. Per lui, pronto a vedere le differenze tra “iracheni e curdi” perché parte della propria storia, chi arriva dl continente nero è “africano”. Le differenze tra Nigeria, Congo o Ruanda, agli occhi di un afghano, praticamente non esistono. Questo atteggiamento ci dice quanto le differenze che noi percepiamo – ad esempio – tra Italiani e francesi siano nulle se viste dal di fuori del nostro privilegiato piccolo condominio europeo.

Gli operatori del centro erano piacevolmente sorpresi nel vedere questo ragazzo proveniente da una sfortunata nazione asiatica riuscire ad essere amico di tutti. Ma non era abbastanza, per lui e la sua fame di cultura. Voleva conoscere la nazione che lo stava ospitando, e così cominciò a prendere la navetta che dal centro portava a Foggia per cominciare a capire come si vive e cosa è l’Italia. La sua curiosità (ricordate la sua vita in Afghanistan? I suoi guai derivavano proprio da quella, qui invece comincia a diventare una risorsa) lo portava a chiedere cose che magari a noi sembrano banali, ma che per chi non era mai stato qui diventavano fondamentali. Il mare come lo vivete? E cosa mangiate? Ci sono luoghi di culto? E di religioni differenti? Avete biblioteche? Scuole? Tutte domande che poneva ai foggiani… in inglese.

Non che non trovasse risposte, intendiamoci, ma da meno persone di quante si aspettasse. E poi, ed è qui la molla importante, l’inglese – si rese conto Walimohammad – costituiva comunque una barriera. Aveva chiesto rifugio in Italia? Doveva imparare l’italiano!

Ecco, qui non si tratta di fare del facile populismo o di costruire frasi fatte che tanta presa hanno adesso nella misera politica nostrana come “a casa nostra fai come facciamo noi”, o cose simili. E’ la banale – a nostro modo di vedere –considerazione di non volersi sentire un corpo estraneo all’ambiente dentro al quale si vive. E’ il voler costruire parte della propria vita, magari una parte serena dopo tante vicissitudini, in una terra che si vuole cominciare a sentire propria. E’, in sostanza, il volersi trasformare da ospite a risorsa. Ed è la più grande fortuna che possa accadere ad un paese che accoglie: trasformare un atto di solidarietà in un investimento sul futuro. Tutto grazie a quella cultura universale che le persone come Walimohammad non solo rispettano, ma praticano.

Tramite internet, ed un quaderno dove cominciava a ricopiare le frasi, e ad imparare i tempi ed i verbi della nostra bellissima (e complicata) lingua. E’ uno sforzo che non va sottovalutato, pensate di fare la stessa cosa – ad esempio – con il tedesco. Provate ad impararlo da soli, con il solo aiuto della “rete” e della vostra volontà.

Fu un episodio, in particolare, che lo convinse che la strada intrapresa era quella giusta. Una notte un ragazzo nigeriano si ammalò nel CARA, non erano presenti interpreti, ed il medico non riusciva a capirsi con il paziente. Walimohammad fece lui da interprete, e venne ringraziato sia dal medico sia dal ragazzo. La sua gioia era immensa, aveva – per la prima volta – utilizzato i suoi studi per qualcosa di reale, di tangibile. Era come – lo dice lui stesso – se quegli studi avessero salvato la vita di una persona.

Le cicatrici erano comunque dure a morire: solo con alcuni rifugiati non riusciva proprio ad avere un rapporto: ed erano proprio gli Afghani. Il suo stile di vita, la sua voglia di imparare, la sua laicità nell’accettare ed anzi valorizzare le diversità mal venivano viste proprio dai suoi compatrioti. Cominciarono con il rompere le sue sculture (la passione per quest’arte non l’ha mai abbandonato), con costringerlo a pregare, ed alla fine lo cacciarono materialmente fuori dalla sua stanza. Le minacce erano tali che alla fine i dirigenti del centro decisero di trasferirlo – caso abbastanza anomalo – lontano dagli afghani.

Che situazione strana: in un ambiente nuovo, e dopo traversie che ti portano in un Centro per Richiedenti Asilo, la presenza di tuoi compatrioti dovrebbe servire a lenire la sensazione di estraneità che è naturale provare in questi casi. Pensate a come, un secolo fa, tutti gli italiani emigrati in USA collaboravano tra di loro, tanto da creare un quartiere tutto loro a New York. Qui, invece, gli unici pericoli per lui derivarono proprio dai suoi connazionali.

Ma ormai – ed è questa la bella notizia, bella soprattutto per chi crede che alla fine l’umanità sia un tutto unico – per Walimohammad l’Afghanistan era solo un ricordo. Aveva trovato il suo presente, ed il suo presente era qui in Italia. Non visse questi episodi come una sconfitta, alla fine, ma come una presa d’atto che ciò che aveva lasciato non sarebbe tornato mai più.

Una volta ottenuto lo status di rifugiato, ottenne l’accesso allo SPRAR (Sistema di protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) a Foggia. Si tratta, al di la del nome pomposo e quasi impronunciabile, di una sistemazione logistica (in genere una stanza in un appartamento), ed una giornata scandita da lezioni di italiano, disbrigo di faccende burocratiche, e gestione casalinga.

Il paradosso di queste strutture è molto semplice, nella sua assurdità: terminato il programma, e ottenuto il permesso di soggiorno, queste persone entro tre giorni devono lasciare i centri SPRAR con una stretta di mano e nulla più. Senza sapere cosa poi fare. Sono, di base, messi alla porta con un lavoro ed un alloggio da cercare.

Paradosso, già: perché dopo che si è investito tanto su questa accoglienza, si consegna in pratica questa gente alla criminalità organizzata o al caporalato. E’ difficile, infatti, trovare lavoro e alloggio in condizioni del genere: anche non considerando la naturale diffidenza verso il “diverso”, esiste comunque la difficoltà oggettiva dell’organizzare di nuovo – e dal nulla –la propria vita.

Per Walimohammad la storia ha un lieto fine, così lieto che ci ha chiesto di raccontarla attraverso questi articoli: e fu proprio il “conflitto” che ebbe con gli afghani al CARA a scatenare gli eventi che ora lo hanno portato a Zavattarello in provincia di Pavia. Una sliding door, quella, decisamente inaspettata.

L’operatrice del CARA che per prima lo difese dalle minacce dei suoi connazionali gli fece conoscere, dopo l’uscita da Borgo Mezzanone un’associazione, la LIA, che aveva bisogno di un interprete.

Cominciò a lavorare per la LIA in Puglia (proprio al CARA che lo aveva ospitato) con gli avvocati che seguono i migranti.

Seguendo un corso di mediatore culturale, con la LIA arrivò al Centro di Prima Accoglienza di Zavattarello, dove la difficoltà di operare in un centro piccolissimo con 50 richiedenti asilo era enorme: e non solo per la politica, ma perché 50 persone in più, in un microcosmo come quello dell’Oltrepò pavese, posso veramente sconvolgere un equilibrio che si è creato attraverso le generazioni. Sta a lui, ed ai suoi colleghi della LIA, impedire i conflitti e cercare invece di far si che queste persone diventino risorse anche per quella piccola comunità.

Walimohammad ora insegna italiano (insegna italiano: che meraviglia) ed ovviamente tiene – passione che non crediamo lo abbandonerà mai – laboratori artistici di scultura. L’integrazione avviene non soltanto tramite lo sport o le partite in parrocchia, ma anche coinvolgendo abitanti del luogo e richiedenti asilo in attività comunitarie relative a quel piccolo microcosmo. Non tutti sono disposti a questo tipo di “lavoro” (integrarsi è comunque faticoso: un suo collega di nella LIA mi dice di quanto sia difficile far accettare a queste persone anche oggetti banali come un bidet), e se tra alcuni deli abitanti permane un senso di diffidenza – notevolmente attenuato, adesso che vedono quanto tanti di questi rifugiati si danno da fare per la comunità –  per il diverso, tra i richiedenti asilo esiste anche chi si accontenta di ciondolare tutto il giorno nella struttura o nel paese senza interagire con nessuno, perché credono che questa sia una situazione eterna. Sta a lui, ed a quelli come lui, lavorare su questo. Lavoro che sta dando i suoi frutti, anche se magari non uguali a ciò che si desidera.

Ormai Walimohammad è lanciato nella sua nuova vita, e se vuole raccontare il suo passato è perché una storia come la sua non rimanga solo patrimonio di poche persone.

Ora lui è sereno sicuramente, e forse anche felice. Sta completando la sua laurea triennale in Scienze della Mediazione linguistica, ed anche se la sorte della sua famiglia lo tiene comunque in apprensione (Il fratellino Dostmohammad è in Germania cercando di ottenere asilo, il fratello maggiore Atai Liaqat Ali – medico anche esso, come il loro padre  – è a Crotone con difficoltà psicologiche dovute alle torture con elettroshock subite per non voler piegare l’ospedale dove lavorava in Afghanistan ai diktat dei talebani), ma oramai la sua vita è qui. Le sue parole sono forse la più bella fine per questo racconto:

“Qui mi trovo bene, il mio lavoro mi piace, mi sento libero di esprimere le mie idee e i miei interessi e posso vivere la fede nel modo in cui desidero… ancora sogno di diventare psicologo come mio papà!”

Auguri, Atai Walimohammad, Afghano, Italiano, cittadino del mondo.

 

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