La lunga crisi yemenita
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La lunga crisi yemenita

A tre anni dalle prime manifestazioni, lo Yemen è un Paese lacerato dalle divisioni e sull'orlo del collasso. Ma la sua crisi non nasce nel 2011, ma ha origini più lontane.

La lunga crisi yemenita
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4 Febbraio 2014 - 08.43


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di Francesca La Bella

Alcuni Paesi suscitano più interesse di altri e, allo stesso modo, alcune rivolte riscuotono più attenzione di altre. Eventi avvenuti in nazioni periferiche con una scarsa politica estera rischiano, così, l’oblio dell’opinione pubblica internazionale benché gli effetti di questi accadimenti possano incidere sia a livello interno sia in una dinamica di area in maniera importante. E’ questo il caso dello Yemen.

La “primavera” iniziata in contemporanea con le più famose esperienze nord-africane non si è mai conclusa e, ad oggi, la stabilità è lungi dall’essere raggiunta. A tre anni dalle prime manifestazioni lo Yemen è un Paese lacerato dalle divisioni e guidato da un presidente, Abd-Rabbu Mansour Hadi, diretto successore di quel Ali ‘Abd Allah Saleh, ritiratosi nel 2012 dopo 33 anni di governo, che fu indicato come il maggiore responsabile della condizione di stallo del Paese.

La crisi yemenita non nasce, però, durante i moti del 2011, né in questi si esaurisce. Si radica, infatti, nella divisione etnico-religiosa tra nord e sud del Paese che negli anni ’90 portò alla guerra civile per la spartizione del territorio. Si inserisce in un contesto economico disastroso che ha valso allo Yemen il titolo di secondo Paese più povero dell’area dopo l’Afghanistan: circa 12 milioni di persone (su una popolazione totale di 20 milioni) non hanno accesso a cibo, acqua potabile, istruzione e assistenza sanitaria; l’economia dipende quasi esclusivamente dalle esportazioni di petrolio estratto nel sud del Paese; i tassi di disoccupazione sono altissimi e destinati ad un ulteriore aumento dopo la fuoriuscita di molti lavoratori yemeniti dell’Arabia Saudita. Ad oggi la situazione è sull’orlo del collasso.

Nella provincia di Sa’dah, area di confine con il regno saudita, solo nell’ultima settimana, più di 60 sono le vittime degli scontri tra Houthi, tribù Zaidi sciita stanziata quasi esclusivamente nel nord del Paese, e gruppi Zaidi filo-governativi e milizie sunnite. Parallelamente numerosi attentati si sono registrati anche nel sud dove, per citare solo il caso più significativo, a fine gennaio 15 soldati sono stati uccisi da un gruppo di uomini sospettati di appartenere ad al Qaeda durante un’imboscata. Le esplosioni ormai scandiscono le notti yemeniti e numerose sono le notizie di attacchi contro personale internazionale: è di questa mattina la notizia del rapimento di un cittadino britannico impiegato in una compagnia petrolifera a Sanaa.

Dopo che per anni le manifestazioni sono state represse con forza dal Governo portando ad una recrudescenza delle proteste, l’escalation di violenza delle ultime settimane può essere, invece, considerata la diretta conseguenza dei tentativi del Governo di giungere ad una pacificazione nazionale. In vista delle elezioni che dovrebbero tenersi a febbraio, a fine dicembre si è chiusa, dopo 10 mesi di lavoro, la Conferenza Nazionale del Dialogo dove, con il supporto di membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e delle Nazioni Unite, le diverse parti in causa si sono trovate allo stesso tavolo a discutere sul futuro del Paese.

Dipinta dal Governo e dagli internazionali come grande vittoria della democrazia, la Conferenza avrebbe dovuto aprire la strada ad una nuova Costituzione ed alla trasformazione dello Yemen in un sistema federale multi-regionale, ponendo fine alla violenza. Così non è stato. Il cessate il fuoco dell’8 gennaio è stato quasi immediatamente disatteso e, nell’ottica della possibile spartizione del territorio in entità regionali autonome, le diverse fazioni cercano di ampliare la propria area di controllo esclusivo a discapito delle altre tribù e/o etnie.

Gli interessi in campo sono, infatti, troppo ampi per essere soddisfatti esclusivamente da una maggiore autonomia regionale. Lo Stato centrale ha progressivamente perso legittimità presso la popolazione sia a causa del sempre maggiore radicamento dei gruppi armati anti-governativi locali, sia a causa delle ingerenze internazionali (soprattutto statunitensi, saudite ed iraniane), e questo ha inciso sulla capacità del Governo di guidare la transizione verso la pacificazione nazionale. L’accesso alle risorse del Paese, petrolio in primis, rimane vincolata dalla collocazione territoriale delle stesse, creando una forte dipendenza da un sud che vorrebbe indipendenza e non semplice autonomia.

Parallelamente, gli attori internazionali considerano lo Yemen un territorio cruciale per gli equilibri dell’area: il Paese è, infatti, pedina fondamentale nello “guerra fredda” tra Arabia Saudita ed Iran. Se per Riyad è sempre stato importante avere un vicino stabile, ma debole che avesse la capacità di contenere le spinte secessioniste sciite nel nord pur mantenendo un legame di stretta dipendenza con il regno saudita, per Teheran l’instabilità yemenita avrebbe consentito agli iraniani di “attraversare il Golfo” ampliando la propria sfera di influenza fino ai confini dell’avversario.
Laddove questi problemi non vengano risolti lasciando la situazione sostanzialmente immutata, è facile immaginare che le elezioni di questo mese non sanciranno la fine degli scontri, ma, più probabilmente, un nuovo inizio.

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