Italia-Libia, la vergogna del Memorandum d'intesa 2.0
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Italia-Libia, la vergogna del Memorandum d'intesa 2.0

Meloni ha sottoscritto con il governo di Tripoli un patto che prevede gas in cambio di nuovi mezzi per proseguire e rafforzare i respingimenti in mare delle persone che dai lager libici fuggivano.

Italia-Libia, la vergogna del Memorandum d'intesa 2.0
Giorgia Meloni in Libia
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31 Gennaio 2023 - 15.48


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Globalist ha fatto da apripista. Fuori dal coro della informazione mainstream, abbia raccontato la missione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a Tripoli andando al nocciolo del patto stretto con le autorità, si fa per dire, libiche: gas in cambio di nuovi mezzi per proseguire e rafforzare i respingimenti in mare delle persone che dai lager libici fuggivano.

Un patto scellerato

Non siamo da soli a denunciarlo. “Pochi giorni fa il premier italiano Giorgia Meloni è volato in Libia per discutere di accordi in materia di gas, economia e migrazione. All’incontro ha detto di voler rafforzare ulteriormente la cosiddetta Guardia costiera libica. Quindi ancora una volta il Governo italiano si prepara a finanziare, addestrare e sostenere milizie dubbie che sono spesso criminali e alleate con i trafficanti di esseri umani”. A dirlo è Sea Watch dopo la missione a Tripoli del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. “L’obiettivo comune – denuncia l’Ong – è intercettare illegalmente le persone in fuga attraverso il Mediterraneo e tenerle lontane dall’Italia e dall’Europa, riportarle nei campi libici, alle torture, alla fame, alle violazioni dei diritti umani e alla morte da cui fuggono. Invece di altra violenza abbiamo bisogno di vie di ingresso sicure e legali. Gli accordi tra Italia e Libia devono cessare immediatamente”. 

Per il senatore PD Graziano Delrio, intervistato da La Stampa, la nuova intesa sottoscritta dal governo con le autorità libiche in tema di immigrazione è “un accordo con il diavolo, con chi i migranti li fa morire, e ormai ci sono le prove che sia così”.

 “Rispetto al memorandum tra Italia e Libia, sottoscritto 6 anni fa dal governo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno, “c’è una differenza fondamentale rispetto a oggi – precisa l’ex ministro – all’epoca le azioni criminali della guardia costiera libica non erano ancora state documentate dalle agenzie Onu e dalle organizzazioni internazionali”.

 Però “alla fine di quell’esperienza – ricorda l’esponente dem – sono cominciati i sospetti e le accuse alle Ong. Un’analisi sbagliata, che negli anni successivi è divenuta criminalizzazione da parte del Conte I e della destra”. In merito alle politiche adottate oggi, “non è con queste vetrine mediatiche, in Libia o in Egitto, che si risolve il problema in modo strutturale”.

Delrio spiega: “Ho molti dubbi sul fatto che un’iniziativa solo italiana, a 60 anni di distanza, possa stimolare un processo così forte. Esiste già un piano europeo per l’Africa, che vale 150 miliardi, l’Italia si impegni a diventare leader di quel progetto, solo così potremo davvero incidere. Altrimenti, sono solo slogan”, ha ribadito Delrio. 

L’ossessione dell’esternalizzazione

Illuminante è un articolo di Dario Prestigiacomo su EuropaToday: “Tunisi, 28 gennaio 2030. Il telefono dell’Ufficio locale per i collocamenti e i rimpatri squilla. Dall’altro capo del telefono, una donna che parla un inglese con un forte accento tedesco chiede di modificare l’ordine di acquisto: servono altri 50 dottori e 100 infermieri oltre quelli già richiesti da dislocare in Germania e Paesi Bassi. Mohammed ancora non lo sa, ma il nuovo ordine gli aprirà le porte dell’Europa. Non che non ci avesse provato: partito dalle coste libiche su un gommone e sbarcato a Lampedusa, la sua richiesta di asilo era stata respinta, e le autorità italiane lo avevano spedito in Tunisia. Mohammed non lo sapeva, ma il suo rimpatrio, insieme ad altri mille, aveva salvato l’accordo sull’export agevolato di olio d’oliva tunisino nell’Ue. Adesso, grazie a un altro accordo, quello per la fornitura di personale qualificato agli ospedali europei, Mohammed potrà finalmente far valere quella laurea ottenuta con tanti sacrifici. “Quel pezzo di carta ti salverà la vita”, gli ripeteva spesso sua madre.

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La storia di Mohammed è chiaramente frutto di invenzione. Ma il futuro delineato nelle righe sopra non è un eccesso di distopia: è quello a cui stanno lavorando concretamente la Commissione e i governi Ue in queste settimane. L’Europa cerca migranti. L’Europa vuole rimpatriare i migranti. Normalmente, le due affermazioni dovrebbero descrivere due diverse strategie nelle politiche sull’immigrazione. Ma a Bruxelles tali linee vanno in parallelo, e spesso convergono quando si parla di economia, commercio e dei prossimi assetti politici dell’Ue. Da un lato, l’Europa ha una grave carenza di forza lavoro e di specifiche competenze che gli Stati non riescono a trovare al loro interno. Dall’altro, l’Europa è sempre più unita nel fortificare i confini (anche interni) per bloccare i flussi di migranti illegali. Ma andiamo per ordine.

Cercasi migranti   

Il 18 gennaio, la Commissione ha convocato   imprese e sindacati per fare il punto su un problema sempre più grave del continente: la carenza di personale in settori chiave dell’economia. Da quando l’Eurostat pubblica le statistiche sui posti di lavoro vacanti, ossia dal 2006, mai come nell’ultimo anno le offerte di occupazione pubblicate dalle imprese sono rimaste senza risposta: l’ultima rivelazione trimestrale nell’Eurozona parla di una quota del 3,1%, quasi il triplo rispetto a 17 anni fa. “Attirare persone qualificate e di talento provenienti da paesi terzi verso il mercato del lavoro dell’Ue è una priorità nella nostra agenda, poiché molte aziende nell’Ue stanno lottando per trovare lavoratori con le competenze necessarie”, ha detto la commissaria per gli Affari interni, Ylva Johansson.

Un’altra commissaria, Elisa Ferreira, responsabile della politica di coesione, ha presentato sempre in questi giorni un rapporto più che allarmante da cui emerge che 82 regioni dell’Europa sono nella trappola dello sviluppo proprio per la carenza di persone laureate e formate. Senza di essere, gli investimenti in progetti innovativi servono a poco, e rischiano di alimentare un’economia vecchia, destinata a morire dinanzi ai grandi cambiamenti della doppia transizione ecologica e digitale. L’Italia è tra i Paesi più colpiti da questo fenomeno, non solo al Sud, ma anche in Piemonte e Liguria, per esempio. E presto anche il Veneto potrebbe farci i conti. 

Secondo l’ultimo rapporto dell’Autorità europea del lavoro, nell’Ue mancano soprattutto idraulici, infermieri, informatici, saldatori e autotrasportatori, ma anche tecnici e ingegneri civili. Che la questione non sia temporanea, ma rischi di diventare strutturale e di lungo termine nel continente, lo dicono diverse analisi: come scrive El Pais, “in una trentina di professioni la carenza di manodopera è profonda, e la Commissione europea calcola che se ora il 70% della popolazione (dei 27 Paesi Ue, ndr) è in età lavorativa, nel 2070 la percentuale scenderà al 54%”. Tradotto: serviranno sempre più lavoratori provenienti da fuori i confini del blocco. A meno di non far chiudere le aziende. Ecco perché Bruxelles ha lanciato una piattaforma che mira a cercare queste competenze al di fuori dei confini Ue, favorendo l’immigrazione legale con una procedura semplificata (attivabile direttamente in un Paese extra-Ue) per ottenere il permesso unico, che combina lavoro e soggiorno. La proposta è passata sottotraccia sui media europei. Forse perché la maggior parte dei governi (compresi quelli che più battono i pugni contro l’immigrazione) sta attuando misure simili sotto le pressioni di imprese e industrie.

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Possiamo chiamarli lavoratori qualificati, se non si vuole disturbare la pancia dell’elettorato più incline agli spot anti immigrazione. Ma sempre di migranti si tratta.  

Fortezza Europa

Il Paese europeo che ha maggiore carenza di personale è l’Austria, secondo gli ultimi dati dell’Eurostat. Eppure proprio il governo di Vienna è tra quelli che chiedono un pugno più duro all’Ue contro l’immigrazione illegale. Questa settimana ha suscitato polemiche la proposta del cancelliere austriaco Karl Nehammer di costruire un muro al confine tra la Bulgaria e la Turchia. L’idea (non nuova) è stata respinta dalla Commissione europea, ma ha ottenuto l’appoggio di un certo Manfred Weber, il presidente del Ppe, il principale partito europeo. Del Ppe fa parte anche Ursula von der Leyen, che potrebbe aver visto nella posizione anti migranti di Weber (tedesco come lei) un tentativo di strizzare l’occhio alla nuova destra di Giorgia Meloni e PiS polacco. Un’operazione politica che complicherebbe la sua corsa a un secondo mandato da presidente dell’esecutivo Ue.

La risposta di von der Leyen è stata affidata a una lettera ai capi di Stato e di governo del blocco in vista del summit europeo di febbraio, dove il dossier immigrazione terrà banco. Nella sua missiva, la leader della Commissione ha sottolineato l’importanza di mettere a punto una serie di azioni per aumentare i rimpatri di migranti irregolari. Tra queste azioni, c’è uno degli strumenti cardine dell’Ue: il commercio. Di recente, i governi dei 27 Stati membri hanno dato un primo via libera alla riforma del regolamento sul sistema di preferenze generalizzate, ossia le norme che regolano i rapporti commerciali con i Paesi terzi in via di sviluppo e meno sviluppati. Nelle more della riforma, l’Ue ha inserito una postilla sulla migrazione: in sostanza, se tali Paesi vogliono continuare a esportare in Europa pagando dazi agevolati (o nulli), dovranno impegnarsi a riprendere i loro cittadini espulsi dagli Stati Ue. Meno dazi in cambio di migranti

Le tariffe preferenziali nascono allo scopo di favorire il commercio estero dei Paesi più poveri e di conseguenza il loro sviluppo. Finora, il regolamento prevede lo stop alle tariffe preferenziali nel caso in cui l’Ue accerti una grave violazione dei diritti umani. Adesso gli Stati Ue potrebbero chiedere una sanzione simile per i Paesi africani o asiatici che si rifiutano di accogliere i loro cittadini espulsi dall’Europa. Inoltre, il testo prevede che lo stop alle agevolazioni sia più rapido, rimuovendo una serie di scogli burocratici.

Il meccanismo è stato proposto dalla Commissione e, dopo l’ok dei governi Ue, manca solo il via libera del Parlamento europeo. Difficilmente Strasburgo si opporrà alla proposta, visto il crescente consenso politico, anche nel centrosinistra, sul potenziamento dei rimpatri di migranti. Il governo socialista della Danimarca, per esempio, sta cercando di attuare un accordo con il Ruanda che prevede l’espulsione di migranti irregolari verso il Paese africano in cambio di finanziamenti. 

Secondo un rapporto della Corte dei conti europea, ogni anno 500mila migranti irregolari che si trovano nell’Ue ricevono l’ordine di lasciare il suolo europeo e di tornare nel proprio Paese d’origine. Ma di questi, solo il 19% “è effettivamente ritornato nel proprio Paese al di fuori dell’Europa”. I cosiddetti accordi di riammissione funzionano solo in minima parte. Tra i Paesi con il più alto numero di migranti non rimpatriati ci sono l’Afghanistan, la Siria, il Pakistan, la Nigeria, l’India, il Bangladesh e la Guinea: tutti Stati che fanno parte della lista dei beneficiari delle tariffe agevolate. L’Italia e la Grecia risultano invece tra i Paesi Ue che riscontrano maggiori difficoltà nel rimpatrio degli irregolari”.

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Così stanno le cose. 

Un report di Amnesty

Ne scrive Giansandro Merli su Il Manifesto: “Nessuno verrà a cercarti: i ritorni forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia. .Attraverso le testimonianze di 53 migranti, le interviste a operatori e agenzie umanitarie e l’analisi di video e foto relativamente al periodo gennaio 2020-giugno 2021, l’Ong dà due schiaffi con un colpo. Il primo a quelle forze politiche (Iv, Pd, M5S) che lo scorso anno avevano celebrato solennemente l’approvazione, insieme all’annuale rifinanziamento della missione, di un ordine del giorno per impegnare il governo a migliorare la situazione dei diritti umani sull’altra sponda del Mediterraneo. Il secondo a chi dal giorno dell’insediamento del nuovo governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dbeibah (15/03/2021) tesse le lodi della «Nuova Libia», terra in via di pacificazione e fervente attesa di investitori stranieri, soprattutto italiani.

«Le prove delle violazioni in corso e dell’impunità goduta dagli ufficiali del Dcim e dai membri delle potenti milizie smentiscono che la formalizzazione o centralizzazione della detenzione in Libia stia migliorando le condizioni per rifugiati e migranti», scrive Amnesty. Dcim sta per Direzione per la lotta alla migrazione illegale, organo che dipende dal ministero degli Interni. Le «orribili violazioni dei diritti umani», dunque, non sono state fermate né dal vecchio Odg del parlamento italiano, né dal nuovo governo libico. Anzi, la situazione è per certi versi peggiorata.

Perché grazie al sostegno economico, alla fornitura di mezzi, all’addestramento di uomini e alla ricezione continua di informazioni dalle autorità e dagli assetti europei la sedicente «guardia costiera libica» cattura sempre più persone: 15.330 nei primi sei mesi del 2021, il triplo delle 5.476 dello stesso periodo 2020 (dati Oim). Dopo essere stati catturati in mare, i migranti sono fatti prigionieri: la legge libica punisce con la detenzione a tempo indeterminato chi entra o esce illegalmente dal paese. Così servono più strutture detentive. Il rapporto documenta la nascita di nuove prigioni «ufficiali» che in realtà sono vecchi centri informali passati dalle mani delle milizie a quelle del Dcim. La bandiera libica all’ingresso, però, non è garanzia del rispetto della dignità e della vita delle persone. Anche perché in luoghi «nominalmente in mano al ministero dell’Interno» le milizie locali continuano a esercitare totale controllo o grande influenza.

Ci sono poi i casi di sliding door, come quello del direttore di Al-Mabani (in arabo: l’edificio): centro aperto nel 2021 e diventato il principale luogo di trasferimento delle persone sbarcate dopo le intercettazioni in mare. L’uomo, scrive Amnesty, aveva gestito la prigione di Tajoura (bombardata e poi chiusa) «che era famosa per torture e altri maltrattamenti, tra cui lavoro forzato, sfruttamento e morti in circostanze sospette». Sono almeno 7mila le persone passate da Al-Mabani. L’8 aprile scorso le guardie e hanno aperto il fuoco dentro una cella, uccidendo un detenuto e ferendone altri. È uno dei tre centri in cui Medici Senza Frontiere ha chiuso il suo intervento tre settimane fa: «troppa violenza».

E con questi figuri Meloni ha stretto un patto. Un patto scellerato. 

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