Considerazioni in pillole sulla tornata elettorale
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Considerazioni in pillole sulla tornata elettorale

Chi può gioire di più è Zingaretti. Tradito dagli alleati del M5s a cui ha finora concesso tutto e di più (alleanza solo in Liguria), un bel "stai sereno" da Renzi.

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Claudio Visani Modifica articolo

22 Settembre 2020 - 07.51


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Referendum. Come era prevedibile il sì vince largamente il referendum sul taglio dei parlamentari sfiorando il 70%. I sostenitori del no possono consolarsi col fatto che una minoranza significativa di italiani non ha seguito le indicazioni dei partiti (85% di sì al taglio in Parlamento, 30% di voti al no). Ma è una magra consolazione. Non è un sì a una riforma costituzionale convincente. E’ la risacca dell’onda di antipolitica che da almeno un ventennio pervade l’elettorato italiano e che ha fatto la fortuna di Cinquestelle e populisti, prima, e dei sovranisti poi. E’ il tributo che il Pd e la sinistra, ma anche la Lega, hanno dovuto pagare al ricatto del M5s per governare assieme. E’ l’ultima delle scolorite bandierine demagogiche issate dai grillini per nascondere la loro debolezza culturale e politica. 
In quel voto non c’è nessuna offensiva anti-casta. C’è il tentativo pericoloso di addomesticare sempre più il Parlamento, di ridimensionarne forza e ruolo per spostare altrove il centro del potere politico: nel governo, nei decreti del Presidente del Consiglio, nel “capo popolo” di turno, nella favola della democrazia diretta. Tutte cose che evocano i “pieni poteri” di Salvini o la Repubblica presidenziale. 
La diminuzione del numero dei parlamentari non è di per sé un dramma o un colpo mortale alla Costituzione. Ma se non arriveranno a brevissimo, com’è assai probabile che non arrivino, gli altri ingredienti necessari a completare il lavoro disegnando una vera riforma (funzioni delle due Camere, legge elettorale, rappresentanza territoriale), alle prossime elezioni ci ritroveremo probabilmente con un Parlamento svilito da 600 deputati e senatori nominati dalla nuova casta che verrà.  

Regionali. Con la clamorosa débacle pugliese (Emiliano 46%, Fitto 39, quando fino a ieri la destra era data vincente), il mancato ribaltone in Toscana (Giani 49%, Ceccardi 40, quando era annunciato il testa a testa) e il cappotto subito in Campania (67% De Luca, 16% Caldoro, con la Lega al 5%), la destra è la grande sconfitta di queste elezioni. Giocava per il 6-1, si ritrova con un 4-3. Non basta la conquista delle Marche, peraltro largamente annunciata, e la conferma in Veneto e Liguria a consolarla. Salvini e Meloni hanno giocato questa partita col proposito di dare la spallata al governo, conquistare nuove elezioni politiche a breve e la guida del Paese. Escono dal campo scornati e delusi, più deboli e divisi. 

Vincitori. Chi può gioire di più è Zingaretti. Tradito dagli alleati del M5s a cui ha finora concesso tutto e di più (alleanza solo in Liguria), un bel “stai sereno” da Renzi (Italia Viva ha corso da sola in Liguria, Veneto e Puglia), insidiato nella sua leadeship dal fuoco amico (Bonaccini), sembrava la vittima sacrificale di queste elezioni. Ne esce avendo ridotto al minimo le perdite (la regione Marche, che comunque non è poca cosa) ma molto più forte politicamente, sia nella coalizione sia all’interno del suo partito. Ora però è chiamato a dimostrare di avere il quid. Il suo Pd all’amatriciana, se vuole legittimare il successo, dovrà smettere di fare il morto per galleggiare e dovrà passare all’incasso (legge elettorale, riforma costituzionale, decreti sicurezza). Sperando che nel frattempo capisca cos’è e dove vuole andare.  
Gli altri indiscutibili vincitori sono i presidenti uscenti delle Regioni, i famosi “governatori”: Zaia, De Luca, Emiliano, Toti. Un successo evidenziato da numeri record, ma che porta con sé, come per il referendum, il virus del presidenzialismo dilagante, cancellando le differenze tra destra e sinistra e a anche a costo di qualche opaca alleanza. 
Vinti. Lo sconfitto numero uno è Matteo Salvini, che dopo essere stato respinto con perdite sei mesi fa in Emilia-Romagna, ora manca l’assalto alla Toscana, naufraga assieme ai Fratelli d’Italia e a Forza Italia in Puglia, registra un forte arretramento nei voti di lista in quasi tutto il Sud e si fa triplicare dalla Lista Zaia in Veneto. La spinta propulsiva del Capitano sembra esaurita. La sua leadership è minacciata ora sia all’interno della Lega (da Zaia, il nuovo doge) sia dai fratelli coltelli alleati (Meloni, Berlusconi). 
I Cinquestelle, che pur potendo sventolare la bandierina del taglio dei parlamentari si vedono ridotti all’irrilevanza politica nelle Regioni, decisivi da nessuna parte, con un calo generalizzato dei voti di lista, più deboli nel governo. 
Matteo Renzi, che pur avendo contribuito alla vittoria del Centrosinistra in Toscana (la scelta del candidato Giani è stata voluta da lui) e in Campania (dove sosteneva De Luca), registra percentuali minime nel voto di lista di Italia Viva: appena il 4,5% nella sua Toscana, il 5,7% in Campania, e rispettivamente l’1,5 e lo 0,6% in Puglia e in Veneto dove aveva corso in solitaria con propri candidati presidente (Scalfarotto in Puglia e Sbrollini in Veneto). 

Pareggianti. Giorgia Meloni, che si prende la leadership della destra al Sud a discapito di Salvini, si porta a casa la presidenza della Regione Marche ma perde le sfide più importante: vincere in Puglia e mandare in crisi la maggioranza di governo.

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