Come invocare il blocco navale a sproposito: lezione per Giorgia Meloni, la ripetente
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Come invocare il blocco navale a sproposito: lezione per Giorgia Meloni, la ripetente

L'estremista di destra invoca a ripetizione questa misura estrema. Senza sapere di cosa parla. Ve lo spieghiamo noi.

Giorgia Meloni
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Agosto 2020 - 12.20


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Ci risiamo. Oltre ogni limite. Non solo di decenza, questa è come il coraggio manzoniano, ma, è questo non è giustificabile, oltre ogni limite di ignoranza, nel senso latino del termine. Ma noi di Globalist che volete, siamo testoni, e non lasciamo indietro gli “scolari” asini. E in quanto ad “asineria” Giorgia Meloni non teme rivali.
E’ riuscita perfino a battere quello che sembrava il re incontrastato delle sparate, senza fondamento, il Messi delle castronerie spacciate come verità politiche: Matteo Salvini. Ma Giorgia ha sbaragliato il campo. Ed eccola di nuovo cavalcare il suo evergreen: il blocco navale.
L”’ammiraglia” Meloni lo chiede da tempo, ma di cosa si tratti per davvero, lei non ne ha la minima contezza. Ma noi di Globalist non demordiamo, e le forniamo un vademecum facile facile per comprendere l’insulsaggine dell’idea. Vademecum per Giorgia Il blocco navale è disciplinato dall’articolo 42 dello statuto delle Nazioni Unite ed è un’azione militare finalizzata a impedire l’accesso e l’uscita di navi dai porti di un Paese o di un territorio. Esso non è consentito al di fuori dei casi di legittima difesa. Inoltre “Il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato” è definito come un vero e proprio atto di aggressione, anche in assenza di dichiarazione di guerra, dall’art. 3, lettera C) della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974. I criteri per attuarlo sono stabiliti dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e 1977 sui conflitti armati via mare. 
1)Prima di attuare il blocco navale la forza militare che lo attua deve comunicare alle nazioni terze non belligeranti la definizione geografica della zona soggetta al blocco stesso; 2) il blocco navale deve essere imparziale nei confronti delle nazioni non belligeranti; 3) una volta attuato consente la possibilità di catturare qualsiasi imbarcazione mercantile che violi il blocco e il suo deferimento a un apposito tribunale delle prede; 4) consente, altresì, la possibilità di attaccare qualsiasi imbarcazione mercantile nemica che opponga resistenza al blocco navale; 5) l’obbligo da parte della forza militare che attua il blocco di permettere il passaggio di carichi contenenti beni di prima necessità e medicinali per la popolazione locale. Per impedire l’avanzata delle navi con a bordo i migranti, le imbarcazioni militari di vedetta devono attuare delle manovre strategiche (spesso utilizzate in tempi di guerra), una di queste è la navigazione a cerchi concentrici che restringe sempre più il raggio di navigazione della nave clandestina. Fuori dalle polemiche di parte, varrebbe la pena ricordare che cosa significhi concretamente, attuare un serio “blocco navale”.
Per implementare il blocco navale devono essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti, spiega, con dovizia di particolari, un report del Geopolitical Center.  Fregate, corvette e pattugliatori posizionati a tre miglia dalle coste libiche e coordinati da una nave da assalto anfibio tipo San Giorgio sarebbero in grado – rimarca l’analista militare Gianandrea Giani – di controllare in modo capillare l’area costiera intorno a Zawyah, la più vicina a Lampedusa, da dove salpano la gran parte dei barconi di migranti. La sicurezza del tratto di litorale e la deterrenza contro eventuali attacchi di miliziani verrebbero garantite dai cannoni delle navi, dagli elicotteri e dai jet da combattimento decollati dalle portaerei Cavour o Garibaldi o dalle basi dell’aeronautica di Trapani e Pantelleria. Per impedire l’avanzata delle navi con a bordo i migranti, le imbarcazioni militari di vedetta devono attuare delle manovre strategiche (spesso utilizzate in tempi di guerra), una di queste è la navigazione a cerchi concentrici che restringe sempre più il raggio di navigazione della nave clandestina.
“Per ottenere un reale sbarramento, considerata la vastità dell’area da controllare, servirebbe quindi un elevatissimo numero di navi e velivoli, con costi di esercizio comprensibilmente insostenibili, considerando anche la necessità di turnazione dei mezzi. Chi pensa che sia agevole attuare questo “blocco”, probabilmente è stato fuorviato dalle immagini che venivano proposte qualche tempo fa negli studi televisivi, dove su di una cartina più o meno fedele del Mediterraneo Centrale venivano sovrapposte, per ovvie ragioni di comprensibilità, grandi icone di navi ed elicotteri che sembravano dominare agevolmente l’area …Una volta poi localizzato il natante sospetto, si deve essere in grado di porre in atto le azioni conseguenti, ovvero imporne lo stop, verificare l’illecito, contestarlo al responsabile dell’imbarcazione, attuare le azioni di respingimento o sequestro. Il tutto in accordo con la legislazione internazionale e ovviamente senza pregiudizio per l’incolumità degli occupanti della barca. È evidente che servono mezzi adeguati, anche dimensionalmente: l’avvicinarsi a piccole imbarcazioni da parte di navi delle dimensioni di un pattugliatore d’altura è estremamente rischioso (caso Sibilla docet…). E naturalmente, in relazione alle condizioni meteo, alle condizioni dei natanti intercettati, spesso fatiscenti, e all’elevato numero di persone a bordo, molto spesso l’operazione di law enforcement si trasforma rapidamente in una di salvataggio”, sintetizza efficacemente il Think Tank “Il Nodo di Gordio” L’ammiraglio Fabio Caffio, tra i massimi esperti delle questioni di diritto marittimo in Italia, è molto netto: “Credo che ci sia un equivoco terminologico che magari giova a qualcuno. Credo che nessuno si riferisca a un “blocco in mare” intendendo un respingimento coattivo, forzato. Nessuno che abbia un minimo di cognizione del diritto si può immaginare qualcosa del genere». Per questo, prosegue Caffio, «il blocco in mare è irrealizzabile e illegale”.
Nel suo Glossario di diritto del mare, del 2007, Caffio spiega quali sono i termini della questione. Il blocco navale è “una classica misura di guerra volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di un belligerante»” I precisi termini della sua applicazione sono definiti dalla consuetudine, visto che in materia non ci sono trattati internazionali, ma si tratta in sostanza di una grande forza aerea e navale che opera a ridosso del Paese che subisce il blocco e che è pronta – anche con la forza – a impedire ogni arrivo o partenza dalle coste, attaccando ad esempio i mercantili che provano a forzarlo. Il blocco deve essere formalmente dichiarato e notificato agli Stati coinvolti, riguarda le navi di qualsiasi nazionalità e tipo, compresi i mercantili, con l’unica eccezione dei beni di prima necessità e degli aiuti umanitari”.
“Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange – rimarca sul suo seguitissimo blog Guido Viale-. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan) se non vengono soddisfatte le loro pretese, ogni volta più pesanti e umilianti per tutta l’Europa. Considerazioni che valgono per tutti i paesi con cui il Governo italiano ha siglato o vuole siglare accordi del genere. Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…”. Un tragico precedente Il 25 marzo 1997 il governo italiano di Romano Prodi e quello albanese di Sali Berisha strinsero un accordo a Roma con il quale l’Italia si impegnava – su formale richiesta albanese, il che non lo rende un blocco navale in senso proprio – a impiegare uomini e mezzi a ridosso delle coste albanesi e nelle acque internazionali del canale di Otranto per fermare l’afflusso di migranti verso le coste italiane. L’operazione scattò già al momento della firma, senza aspettare i protocolli di applicazione (che sarebbero arrivati il 2 aprile); solo due giorni dopo, la motovedetta albanese Katër i Radës, carica di migranti, venne speronata in acque internazionali dalla nave italiana Sibilla: morirono 108 persone. Gli sbarchi, di fatto, non si fermarono, e l’operazione della Marina militare italiana proseguì ancora per qualche mese. Per rinfrescare la memoria “Occorre fare attenzioni alle parole. È impossibile ad esempio il blocco navale evocato in questi giorni poiché è un atto di guerra. Così il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, intervenendo alla trasmissione L’Intervista su Skytg24. “Questo governo vuole controllare il traffico clandestino di uomini connesso alle migrazioni – ha precisato – non vuole negare i diritti dei migranti. Le navi della Marina militare e della Guardia costiera continueranno a salvare uomini in mare, “lo dice il diritto internazionale” rimarcò la titolare della Difesa confermando che gli uffici del ministero stanno lavorando alla richiesta formale per concorrere all’assegnazione del premio Nobel per la pace per “tutte le componenti italiane che partecipano al salvataggio dei migranti”. 
Nota bene: l’intervista è del 23 giugno 2018, e Trenta era ministra della Difesa del governo gialloverde Conte1, quello con Salvini all’Interno e vice premier in condominio con Luigi Di Maio. In conclusione. La parola chiave, quella impronunciabile è un’altra. Quella parola è “combattere”.
Che non è la traduzione italiana di “peacekeeping”. Combattere significa definire regole d’ingaggio non difensive; significa impegnarsi attivamente non solo nell’addestramento di ciò che resta dell’esercito libico, ma agire per disarmare le milizie, liberare i centri ancora occupati dalle diramazioni nordafricane dello Stato islamico, alla frontiera tra la Libia e la Tunisia. Significa mettere in campo, in una prospettiva di medio termine, non qualche migliaio di uomini, ma una forza, concordano gli analisti, di almeno 50mila unità. Combattere a terra, e non solo con missioni aeree o bombardamenti navali. Significa preparare l’opinione pubblica a situazioni di rischio e anche a pagare un tributo di sangue. In una parola, significa prepararsi a una guerra.
Alle porte dell’Italia. Il blocco navale è irrealizzabile e illegale. L’avrà finalmente capito Giorgia? E’ vero che non c’è limite alla divina provvidenza, ma la vediamo molto dura…

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