L'Italicum di Renzi e il consociativismo che non c'è più
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L'Italicum di Renzi e il consociativismo che non c'è più

Era così bello quando c’era la Dc e il consociativismo: parola oscura alle nuove generazioni ma che ha rappresentato il cardine della politica italiana per trenta anni.

L'Italicum di Renzi e il consociativismo che non c'è più
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16 Aprile 2015 - 15.44


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di Giancarlo Governi

Era così bello quando c’era la Democrazia Cristiana e il consociativismo! Una parola oscura alle nuove generazioni ma che voleva rappresentare il cardine della politica italiana per trenta anni. La DC governava a Roma, e il Pci governava in periferia, nelle regioni, nelle provincie e nei comuni. A Roma stava all’opposizione ma preoccupandosi che nessuna altra forza politica potesse inserirsi in questo meccanismo collaudato. Ci provò il Partito Socialista, prima di Nenni e poi di Craxi ma furono travolti, il primo da De Martino il quale alla vigilia delle elezioni arrivò a dichiarare che il suo partito non sarebbe più andato al governo senza i comunisti. Gli elettori lo presero in parola e votarono direttamente per il partito comunista. Craxi, dopo aver tenuto sulla corda il partito comunista e la democrazia cristiana per alcuni anni, si giocò tutto in una alleanza di potere con Andreotti e Forlani e il suo disegno di autonomia riformista naufragò nella tempesta di tangentopoli.

Ci fu il tentativo di Romano Prodi, nel 1996 ma le cose andavano troppo bene per i guastatori della sinistra conservatrice, i cui campioni si chiamavano Bertinotti e D’Alema, il quale temeva che l’Ulivo diventasse un forte partito che avrebbe chiuso le porte di Palazzo Chigi e magari anche del Quirinale a quello che rimaneva del vecchio Pci, e soprattutto a lui.

Il secondo tentativo dell’Ulivo di Prodi riproposto 10 anni dopo e chiamato a gran voce da primarie trionfali per il Professore, naufragò su porcellum (una legge elettorale fatta apposta dalla maggioranza leghista e forzista, proprio per rendere vana e sterile la vittoria annunciata di Prodi) ma soprattutto dalla ammucchiata che sosteneva il governo, che andava da Mastella a Bertinotti, a Di Pietro, e ancora di più per via della mancata personalizzazione della campagna elettorale. Infatti, mentre sulle schede elettorali gli elettori trovarono il nome dei leader sulla scheda dell’Ulivo mancava il nome di Prodi. E anche questo fu indubbiamente un auto boicottaggio.

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Il secondo governo Prodi durò meno di due anni, proprio per la mancanza di una vera maggioranza soprattutto al Senato.

Gli errori dei leader del centrosinistra (quelli involontari ma soprattutto quelli voluti) riportarono a Palazzo Chigi il redivivo Cavaliere che nel quinquennio precedente aveva governato soltanto per portare a casa leggi ad personam che salvassero lui e le sue aziende dai pericoli della Legge e della Giustizia. Ma il secondo quinquennio berlusconiano si infranse nei conti dell’Europa, in scogli che si chiamavano spread e in soccorso fu chiamato il professor Monti, un bocconiano privo di qualsiasi senso politico, il quale adottò l’unica politica che potesse essere nelle sue corde, quella delle lacrime e del sangue, soprattutto dalla parte dei lavoratori, dei pensionati e delle categorie più povere, mentre i grandi capitali che Monti rappresenta da sempre, rimasero intatti.

Si andò di nuovo a votare, ancora una volta con il porcellum che aveva già rovinato due tornate elettorali e che si apprestava a rovinare la terza. Il PD si presentò con Bersani, la faccia bonaria di quello che rimaneva nella sinistra italiana del vecchio PCI. Bersani, con una campagna sciagurata fatta di metafore, parabole condite di buonismo e di ottimismo mieloso sparso a piene mani, si mangiò il cospicuo vantaggio che gli davano i sondaggi, permise una inaspettata rimonta di Berlusconi, la affermazione del movimento di Grillo che aveva saputo parlare alla pancia del Paese. Il risultato fu un nulla di fatto, con un Paese più ingovernabile di prima, un Parlamento in preda ad un anarchica “cupio dissolvi” che si manifesto con la incapacità ad eleggere il Presidente della Repubblica, tanto che si dovette chiedere con il cappello in mano al vecchio Napolitano, di disfare i bagagli e rimanere ancora al Quirinale.

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A palazzo Chigi andò Enrico Letta, un manovratore tranquillo, uno che in quei mesi che rimase alla guida dell’Italia non si fece né vedere né sentire. Letta aveva detto che per cambiare l’Italia avrebbe usato il cacciavite ma non trovò mai il tempo per andare dal ferramenta per comprare l’utensile.

A questo punto il giovane Renzi che prometteva sfracelli e rottamazioni ebbe la strada spianata. Renzi dette prima l’assalto al PD, stravinse in congresso diventò segretario, mandò a casa tutti i vecchi dirigenti e fece quello che tutti ci aspettavamo da lui: dette il benservito a Letta e si installò a Palazzo Chigi dove si mise a governare una maggioranza non sua e un Parlamento dove lui non aveva neppure la maggioranza dei gruppi del suo partito. Inventò il patto del Nazzareno, fece spaccare il centro destra e incominciò a governare non con quel cacciavite che Letta si era dimenticato di comprare ma con il trapano. Alle europee portò il Pd a oltre il 40 per cento, roba che nemmeno la DC nella prima Repubblica. E soprattutto mise mano alle riforme, a partire da quella del Senato e soprattutto la legge elettorale, il famigerato porcellum che da dieci anni stava rovinando l’Italia. Glielo chiedevano gli italiani e glielo chiedeva il vecchio Napolitano che non vedeva l’ora di andare definitivamente in pensione a godersi i nipoti e i pronipoti.

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Inventò l’Italicum, un sistema elettorale frutto di compromessi e quindi certamente non perfetto ma che avrebbe dato un risultato elettorale certo, con un governo stabile che avrebbe governato per un quinquennio. In un Paese che non veniva governato da quasi venti anni.

Ebbene, l’Italicum supera lo scoglio della prima lettura della Camera, supera per il rotto della cuffia lo scoglio del Senato dove la maggioranza è risicatissima con qualche modifica di poco conto che però la deve riportare di nuovo all’esame della Camera dove il governo gode di una maggioranza forte. Quindi Renzi e con lui la maggioranza degli Italiani erano autorizzati a pensare che finalmente avremmo avuto un sistema elettorale efficiente, questione di giorni e di dettagli. Ma non avevano fatto i conti con la minoranza del PD, quella che dentro il partito non conta quasi niente ma che conta ancora nei gruppi parlamentari. Non avevano fatto i conti con i Fassina, i Civati, i Cuperlo, le Bindi, i Bersani (all’estero dopo una sonora sconfitta elettorale come quella subita da Bersani ci si ritira a vita privata ma in Italia evidentemente no), i D’Alema che continuano a manovrare dietro le quinte, si sono coalizzati e rischiano di far saltare tutto e di portare l’Italia a nuove elezioni questa volta con un proporzionale puro che renderà il Paese ancora più ingovernabile. Tutto questo per sbarrare la strada a Matteo Renzi. Ma anche sbarrando la strada, come fanno da anni, al disegno riformista che dovrebbe cambiare l’Italia.

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