La battaglia per convincere l’opinione pubblica sembra farsi sempre più difficile di fronte alle cifre mostrate dalle organizzazioni internazionali: la Serbia, secondo le ultime proiezioni del Fondo monetario, sarà l’unico Paese nei Balcani occidentali a non crescere nel 2015, ed anzi a registrare una diminuzione del pil dello 0,5 per cento. Gli indici riportati dall’Economic Outlook di primavera sono arrivati come una doccia fredda per il premier Aleksandar Vucic, che da più di un mese riempie le pagine dei media con dichiarazioni ottimistiche fino a prevedere, “se le cose andranno avanti così”, un aumento di stipendi pubblici e pensioni.
Il paradosso si completa con le dichiarazioni del ministro delle Finanze, Dusan Vujovic, che in partenza per Washington, dove ha partecipato alla sessione di primavera di Fmi e Banca Mondiale, ha detto di aspettarsi “solo lodi per i risultati raggiunti”. Gli esperti si interrogano ora su come sia possibile un cortocircuito mediatico che costringe i telegiornali a mandare in onda informazioni decisamente contrastanti. La “buona notizia” apparentemente c’è, ed è quella che vede nei primi tre mesi dell’anno una diminuzione del deficit di bilancio che arriva a 21,4 miliardi di dinari, a fronte di un tetto massimo stabilito di 55. Ma poi?
Andando a scavare più a fondo si scopre però che il dato è solo provvisorio, ed è dovuto in gran parte all’aumento “una tantum” delle entrate delle aziende pubbliche che hanno versato la quota annuale di dividendi allo Stato. Ad avere contribuito maggiormente sono l’aeroporto “Nikola Tesla” e “Telekom”, peraltro al centro di diversi annunci su una loro possibile privatizzazione in futuro. Il primo a segnalare il rischio di una “falsa lettura dei dati” è stato il Consiglio fiscale, organismo indipendente incaricato di vigilare sui conti pubblici dello Stato. Un altro fattore di rischio nell’interpretazione degli indicatori, secondo il Consiglio, sta nelle entrate derivanti dall’Iva.
Nonostante Vucic abbia sottolineato “gli ottimi risultati” ottenuti dall’aumento dell’Iva e delle accise, anche in questo caso a ben guardare la crescita dei proventi nei primi tre mesi dell’anno è stata poco più che simbolica, con un più 2,8 per cento rispetto all’anno scorso a fronte di previsioni pari al 10-15 per cento. A condizionare l’esito è stata innanzitutto una contrazione del mercato interno, già provato dalla crisi economica e ora definitivamente affossato dai tagli a stipendi pubblici e pensioni operati a novembre, che hanno portato ad una diminuzione del 10 per cento su entrate mensili che già non superavano in media i 350 euro.
I recenti annunci di un nuovo possibile aumento di salari e pensioni non si scontra però soltanto con la scarsa crescita economica, ma soprattutto con i calcoli eseguiti dagli esperti sulle finanze pubbliche. Se infatti non fossero state messe in atto le riduzioni, il deficit del primo trimestre sarebbe schizzato in avanti con una crescita di 25 miliardi di dinari, e solo questa voce, presa singolarmente, è superiore alle spese complessive registrate. Un’altra consistente misura di risparmio è data dalla rinuncia ai grandi investimenti, soprattutto ad una buona parte di quelli infrastrutturali definiti necessari per lo sviluppo economico del Paese. In questo caso non sono stati spesi 5 miliardi di dinari, poco più di 40 milioni di euro. I risultati positivi decantati dal governo sono dunque solo frutto di tagli che peraltro Vucic promette di non applicare più in un prossimo futuro. Quello che appare evidente agli analisti di settore è che le cifre raggiunte non sono l’esito di una ripresa economica reale, e la dimostrazione sta nelle cifre del debito pubblico.
Dall’aprile dell’anno scorso, ovvero nel corso di un anno esatto di governo Vucic, il debito è aumentato di oltre 3 miliardi di euro, passando da 20,6 a 23,7 miliardi. Appare dunque poco chiaro perché il premier insista nel ritenere possibile un ritorno ai vecchi salari e pensioni, e le dichiarazioni possono essere interpretate solo alla luce del rischio di elezioni anticipate che sembra farsi sempre più concreto, stando almeno alle indiscrezioni di stampa. Secondo i giornali nazionali si potrebbe andare al voto già a dicembre, ma per ora non sono arrivate conferme né smentite.
A marzo il premier aveva annunciato “profondi cambiamenti” nella compagine governativa, prevedendo 4 possibili scenari. Tre di questi erano in sostanza un rimpasto, con la sostituzione di ministri fra le varie forze della coalizione entro la fine di aprile. Agli annunci non sono seguite azioni di nessun tipo, e i media ritengono sempre più probabile che si vada a realizzare la quarta ipotesi, che detta con le parole di Vucic prevede che “non si cambi nulla fino a novembre o dicembre”. Nel frattempo le operazioni si concentrano sulla produzione di “buone notizie” ad uso e consumo dell’opinione pubblica, che comprendono previsioni a lungo raggio per il 2016 e il 2017.
Secondo Vucic il Fondo “ha sbagliato” nelle sue proiezioni, e la crescita quest’anno sarà del più 0,5 per cento. Questo aprirà le porte, ha aggiunto, ad un rilancio più deciso nel biennio successivo, con risultati che raggiungeranno un picco del più tre per cento per il pil nazionale e che in questo modo renderanno la Serbia il Paese con la maggiore crescita registrata in tutta la regione. Ironia della sorte, le previsioni di Vucic sono state seguite pochi giorni dopo da quelle della Banca Mondiale, che vedono una crescita, e già per quest’anno, del 3,5 per cento per la Macedonia, del 3,4 per il Montenegro, del 3 per cento per l’Albania. Persino la Bosnia Erzegovina, solitamente fanalino di coda delle classifiche regionali, ottiene un 1,5 per cento, mentre la Croazia, in recessione sa anni, guadagna un pur simbolico più 0,2.
(Fonti: Nin – agenzie)