Morire felici? Le riflessioni di Hans Küng su cattolicesimo e eutanasia
Top

Morire felici? Le riflessioni di Hans Küng su cattolicesimo e eutanasia

In un’intervista concessa poco tempo prima di morire, il grande teologo è entrato, come spesso gli è accaduto, con lucidissima visione in un tema che allora e oggi è di grande attualità: “lasciare la vita senza paura”.

Morire felici? Le riflessioni di Hans Küng su cattolicesimo e eutanasia
Il teologo Hans Küng
Preroll

globalist Modifica articolo

25 Novembre 2021 - 11.10


ATF

In un’intervista concessa poco tempo prima di morire, il grande teologo Hans Küng è entrato, come spesso gli è accaduto, con lucidissima visione in un tema che allora e oggi è di grande attualità: “lasciare la vita senza paura”. Quell’intervista è poi diventata parte fondamentale di uno dei suoi ultimi libri, “Morire felici?”. Tra le caratteristiche di questo grande teologo cattolico al quale Giovanni Paolo II fece togliere la licenza di insegnamento della teologia cattolica e che da allora è diventato un punto di riferimento del cosiddetto “dissenso cattolico” c’è sempre stata quella di sapere spiegare i grandi insegnamenti della morale, della dottrina cristiana, secondo il modo di sentire delle “personale normali”, di quelli che lui chiamava i “cattolici normali”. Non è mai stato un teologo di corte, neanche di quella romana, ovviamente. Le sue considerazioni sono ancora oggi di grandissima attualità e mi sembra importante, mentre ci si torna a dividere su linee di pensiero e categorie da teste tonde contro teste a punta, rileggere solo alcuni punti della sua riflessione.  

Alla domanda “perché vuole porre termine alla sua esistenza non appena avvertirà i primi segni di demenza?” ha risposto: “Perché sono del parere che la vita terrena non sia tutto. Ovviamente ciò si deve alla convinzione di fede secondo cui non mi dissolverò nel nulla. Capisco le persone che, non credendo nella vita eterna, hanno paura del non-essere. Io, invece, son persuaso che non svanirò nel nulla, bensì entrerò in una realtà ultima”. Convinto, fermamente convinto, che la vita sia un dono Dio, asseriva in quell’intervista che “ciascuno di noi è responsabile della propria vita. E perché dovrebbe cessare di esserlo proprio nell’ultima fase dell’esistenza? La responsabilità esiste fino in fondo e io ho tutte le intenzioni di assumerla”. Leggendo ho pensato che sbagliare la propria morte è un problema rilevante come sbagliare la propria vita. Di entrambe in effetti ce ne è una sola. 

Hans Küng ovviamente conosceva bene la differenza tra eutanasia passiva e eutanasia attiva, lo spegnere le macchine e lo scegliere. E a questo riguardo, dell’eutanasia attiva, aggiungeva due considerazioni decisive. La prima sull’evoluzione della posizione vaticana: “Oggi nessuno è più contrario alla cosiddetta eutanasia passiva – anche se a Roma c’è sempre qualche bastian contrario- e si ritiene lecito spegnere le macchine, staccare il respiratore e interrompere l’alimentazione artificiale. E’ un’operazione passiva. Non capisco perché sia meno attiva di un medico che somministra una dose eccessiva di morfina. La leadership della Chiesa non ha riflettuto abbastanza”. 

La seconda sull’eutanasia attiva, che richiede dei distinguo: “Secondo gli ultimi sondaggi condotti in Germania il 77% della comunità ecclesiale considera giusto che nell’ultimo fase dell’esistenza si possa prendere in considerazione l’eutanasia. […] Va da sé che bisogna tenere conto delle circostanze: se fossi un uomo sulla quantità con una famiglia, con moglie e figli, e mi capitasse una disavventura, per esempio la perdita del lavoro, non potrei semplicemente dire addio alla vita senza preoccuparmi di chi resta”. 

C’è poi la considerazione di fondo, nei confronti del singolo: “Vorrei che la Chiesa aiutasse l’uomo a morire anziché a limitarsi a dargli l’estrema unzione.

Nel testo cui si fa riferimento non poteva mancare la domanda su come essere certi che non ci sia  più alcuna felicità terrena ad attendere non il malato, ma chi sceglierebbe appunto perché sente di non aver più un compito da svolgere: “Be’, non la metterei in questi termini. Diciamo piuttosto che in quel momento capirò che la mia vita è compiuta, che non ho più incarichi da portare a termine, che è semplicemente ora di andarmene. Come si legge nel Qohelèt dell’Antico Testamento, c’è un tempo per vivere e uno per morire, e quello sarà il mio tempo per morire”. 

Native

Articoli correlati