di Alessia de Antoniis
Dal 17 dicembre al 19 gennaio 2026, Palazzo della Cancelleria ospita De Humana Mensura, prima mostra romana di Linda Karshan curata da Laura Villani. Dopo tappe in istituzioni come la Tate Modern e il British Museum, l’artista approda nella capitale con una selezione di opere su carta provenienti da collezioni italiane e internazionali, che narrano il dialogo profondo che l’artista statunitense intrattiene con il Rinascimento.
Karshan ha fatto del disegno una pratica fisica: «Per undici anni, ho lavorato ogni giorno», racconta. Poi, un giorno, davanti al tavolo, «apparvero i numeri, i ritmi, la direzione per girare il foglio». Da quell’apparizione nasce Self Portrait, oggi al British Museum: un’icona personale e un “modello” per tutto ciò che è venuto dopo.
Il giorno in cui creò Self Portrait, all’Institute of Contemporary Arts, vide Quad, il teleplay beckettiano in cui quattro attori incappucciati marciano sul palco contando i movimenti, avvicinandosi al centro senza mai raggiungerlo. Da allora Beckett non l’ha più lasciata. Un metodo performativo, il suo, nato nel 1994, nutrito anche dagli studi di psicologia e dall’idea winnicottiana di “spazio transizionale”. Come i suoi “walked drawings” al British Museum, che portano il disegno nello spazio architettonico, trasformando il camminare in un atto grafico.
Cosa cambia per lei quando la linea è tracciata dal corpo che si muove nello spazio, invece che dalla mano sulla pagina?
Ogni disegno è uno spazio-evento che richiede grande attenzione. Al British Museum lo era in modo particolare. Quelle grandi gallerie del Western Range ospitano collezioni classiche provenienti da Egitto, Assiria, Grecia, Roma e Mesopotamia. Le conosco benissimo: ci entro da quando ero giovane, fin dal 1968, appena due anni dopo l’apertura della Parthenon Gallery. Quindi, quando l’allora direttore Hartwig Fischer mi invitò a “camminare” lungo il Western Range, accettai sapendo quale senso di responsabilità fosse in gioco.
Anche qui al Palazzo della Cancelleria, ho preparato alcune idee per una conversazione nella Sala del Vasari prima di “mettermi in cammino”, così da mettere il pubblico nella condizione di comprendere come funziona questa performance.
Più che una stanza è uno spazio-evento che esige decisioni nette, e a quelle decisioni si arriva solo a partire da uno stato di grande consapevolezza, attenzione quasi “forense” e distacco. Tutto nello spazio-tempo di un respiro. E, una volta liberate, queste decisioni accadono da sole: in un momento di grazia.
Un pilastro della sua arte è lo “spazio transizionale”. Nell’aprile 2025, nel “Drawing of the Month” di Trois Crayons (magazine digitale dedicato al disegno – nda), ha commentato i disegni alla mescalina di Henri Michaux in prestito al Courtauld. Gli esperimenti sugli stati alterati di coscienza di Michaux dialogano con il suo concetto di “spazio transizionale”?
Quel disegno era mio. È rimasto nella collezione mia e del mio defunto marito per moltissimi anni. Michaux è tra i tanti disegnatori di cui abbiamo raccolto i lavori perché, ognuno a suo modo, realizzava la propria opera attraversando uno spazio transizionale più di quanto accada alla maggior parte degli artisti. È questo che ci attraeva.
Nel caso dei disegni alla mescalina, la questione è evidente: lui assumeva droghe. Il suo era uno stato di coscienza alterato. Il disegno di cui parliamo era particolarmente bello, magnifico direi; tanto da spingermi a sceglierlo per far parte della nostra collezione. Per molti anni è rimasto appeso nella nostra casa di fronte a un mio disegno: questo mi ha dato la possibilità di metterli a confronto, perché entrambi mostravano la struttura organica di un essere umano.
Se posso dirlo, preferisco il mio disegno, perché si è rivelato ed è venuto alla luce in uno stato di grazia. Nel caso di Michaux, invece, lui si trovava sotto l’effetto di droghe e questo conferiva al suo lavoro una qualità frenetica. C’era molto da imparare tenendo quei disegni in casa e guardandoli in relazione l’uno con l’altro.
La sua famiglia ha istituito il Roger E. Joseph Prize in memoria di suo padre. È stato dato a coloro che lottano per i diritti umani universali, da Rosa Parks ai Rohingya. Oggi ci sono molte crisi umanitarie nel mondo. Come artista il cui lavoro parla di armonia e ordine universale, come vede il suo ruolo rispetto alle tragedie in atto? Sente che il suo lavoro e la sua voce dovrebbero farsi sentire in qualche modo?
Questa è una domanda meravigliosa con cui chiudere questa intervista. Da quando il Roger E. Joseph Prize è stato istituito nel 1978 da nostro zio e nostra zia, e le mie sorelle e io abbiamo avuto l’onore di supervisionarlo. Lungo il percorso abbiamo incontrato persone e istituzioni straordinarie che si sono coraggiosamente dedicate alla causa dei diritti umani. In alcuni casi sono diventata loro amica.
Molto recentemente sono rimasta particolarmente colpita da Matthew e Amy Smith, direttori fondatori di Fortify Rights, quando li abbiamo premiati con un Joseph Prize per il loro lavoro di documentazione delle atrocità contro i diritti umani dei Rohingya in Myanmar.
Col tempo, sono riuscita a mettere in contatto Fortify Rights e la Wiener Holocaust Library di Londra, un’organizzazione che avevamo già riconosciuto nel 1999. Ho fatto da tramite per una mostra, ‘A Chance to Breathe’, in cui la Wiener Holocaust Library ha esposto alcune fotografie straordinarie scattate dai rifugiati nel campo profughi di Cox’s Bazar, un progetto avviato da Matt e Amy Smith che hanno dato ai rifugiati degli iPhone. È così che posso fare la differenza: mettendo in contatto persone e idee. Questo è qualcosa che mi contraddistingue come essere umano.
Per entrambe queste organizzazioni ho ospitato eventi nella mia casa a New York per aumentare la loro visibilità. Per questo sono diventata Trustee degli U.S. Friends della Wiener Holocaust Library e faccio parte del Leadership Council di Fortify Rights.
Di recente mi sono chiesta: come si tiene insieme tutto questo? Che senso ha questo nella mia vita? E allora non posso che tornare al nostro amico Italo Calvino, che ci ricorda che ogni vita è un’enciclopedia. Una biblioteca. Un campionario di stili.
Dico spesso ai miei amici, molti dei quali mi raggiungeranno a Roma: l’arte ci unisce in un’armonia sociale. Attraverso la meraviglia dell’arte si formano amicizie virtuose. E così è anche per i diritti umani: è tutto connesso.