di Alessia de Antoniis
A Cannes, lo hanno applaudito per sette minuti. E Corrado Fortuna, su quel tappeto rosso, ci è arrivato con addosso tutto il peso, e l’onore, di una storia d’amore vera. Quella tra Angelo Pellegrino e Goliarda Sapienza, narrata nel nuovo film di Mario Martone, Fuori, presentato in concorso al Festival e uscito nelle sale italiane il 22 maggio. Un film che non è solo un omaggio a una delle voci più libere e potenti della letteratura italiana del Novecento, ma anche un atto di giustizia poetica verso una donna dimenticata troppo a lungo.
Corrado Fortuna interpreta Angelo Pellegrino: scrittore, grecista, attore e compagno di una vita della Sapienza. “È successo tante volte di interpretare persone vive. Cerco sempre di rubare un pezzettino della loro anima. Con Angelo ci siamo seduti al bar sotto casa di Goliarda, abbiamo parlato per due ore e mezza. Lui raccontava con gli occhi commossi e innamorati. Io ho provato a portare quegli occhi nel film”, racconta Corrado durante la nostra chiacchierata.
Siciliano, classe 1978, Fortuna ha sempre abitato il confine tra parola scritta e immagine. Dai set con Paolo Virzì ai romanzi che portano dentro le sue stesse inquietudini; dalle letture che lo hanno formato – Verga, Quasimodo, Sciascia – a quando ho ricevuto il copione di Fuori – ho capito subito che il ruolo era mio – all’ultimo incontro a Cannes con Pellegrino. Chiacchierare con Corrado Fortuna è già andare al cinema, entrare nel film della sua vita. Lo stesso accade leggendo L’ultimo lupo, romanzo che parla di sradicamento e legami riallacciati.
Quanto c’è di autobiografico in questa storia?
Tutto quello che scrivo nasce da una parte di me. La questione delle radici emerge con l’età adulta, quando si rimettono in discussione molte cose. Scappare dalle proprie radici è inutile: si rischia una solitudine senza nome. Riconnettersi con le radici è riconnettersi con se stessi. Se vuoi vivere con serenità, devi accettarti e conoscerti. È un processo quotidiano, e per me finisce inevitabilmente nei miei personaggi.
Nei suoi romanzi dà voce a una fragilità maschile che contrasta con la retorica del successo a tutti i costi…
Credo sia logorante per gli uomini indossare la maschera del macho: non piangere, non chiedere, non soffrire. Ma la vera forza sta nell’opposto: nel saper chiedere aiuto, nel contattare le proprie emozioni.
Vede dei cambiamenti in atto?
Credo che accogliere il proprio lato femminile sia una cosa sana per gli uomini di oggi. Senza paura, senza vergogna, senza quelle zavorre culturali del passato. Il patriarcato resta un problema enorme, lo vediamo ogni giorno, ma mi sembra che le nuove generazioni maschili siano meno rigide, più fluide. Anche se c’è ancora molto da fare.
Lei ha scritto L’ultimo lupo. In Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés parla di una forza femminile ancestrale, repressa dalla cultura patriarcale ma eterna, sempre presente e pronta a riemergere. Lei, invece, parla di un altro tipo di lupo: un padre assente, un maschio alfa in declino, un predatore stanco. È un ribaltamento che mi ha molto incuriosito…
Anche per me Donne che corrono coi lupi è stata una lettura importante, giovanile, insieme a tanta altra letteratura e a moltissima saggistica femminista. Penso a Gloria Steinem, per esempio. Quelle letture mi hanno influenzato profondamente. Nei miei romanzi ci sono sempre personaggi, maschili e femminili, che portano con sé quel tipo di sensibilità. Ho avuto una compagna molto femminista e anche quello ha contribuito a formare il mio punto di vista, rendendolo diverso da quello della maggior parte degli uomini attorno a me. Leggo molto, ho tempo per farlo, e tutto quello che assorbo, cerco di infilarlo, più o meno esplicitamente, dentro quello che scrivo.
I suoi romanzi hanno una forte componente visiva. Ha mai pensato a una trasposizione cinematografica?
Me lo dicono spesso e ne sono contento. Ho uno sguardo cinematografico perché ho vissuto tanti set, ho scritto molto per il cinema, anche se poi poco è stato realizzato. Credo che “L’ultimo lupo” potrebbe essere un film semplice da girare e non troppo costoso.
Qual è stato l’incontro più formativo della sua carriera?
Sicuramente Paolo Virzì: mi ha insegnato a stare sul set, da attore e come suo assistente sul set di “Il capitale umano” e “Caterina va in città”. Ho lavorato tanto con Riccardo Milani, eccezionale sia in televisione che sui set cinematografici. Anche con lui sono cresciuto tanto.
Ha mai pensato alla regia?
Credo di non essere mai stato abbastanza maschio alfa per fare il regista. È una cosa complicatissima. Servono sicurezza, determinazione, capacità di chiedere milioni di euro per un progetto. Io non ce l’ho. Ci ho provato un paio di volte, ma ai primi “no” mi sono ritirato. Ci vuole una “cazzimma” che io evidentemente non ho.
Cosa la guida nella scelta di un ruolo?
Superati i cinquant’anni, spesso scegliamo pensando alle responsabilità di una famiglia. Da questo punto di vista, chi fa l’attore non è diverso dagli altri lavoratori autonomi. Ma ultimamente sento che è un buon momento per me, qualcosa sta cambiando.
Come è stato interpretare Angelo Pellegrino?
L’ho incontrato, ci ho parlato, ho cercato di cogliere un pezzo della sua anima. Con Angelo abbiamo parlato per due ore e mezza al bar. Parlava di Goliarda con occhi ancora innamorati. Quegli occhi ho cercato di portarli sullo schermo.
Cosa sapeva di Goliarda Sapienza prima del film?
Abbastanza: sono un accanito lettore di Goliarda da quando uscì “L’arte della gioia”. Avevo il privilegio di frequentare casa Bertolucci e una sera si parlò di questo libro. Sono siciliano, e dentro “L’arte della gioia” c’è tutta la letteratura siciliana che conosco: il verismo, Verga, Quasimodo, Sciascia, tutto quello che mi ha formato culturalmente, ma visto da un punto di vista femminile, di una donna “avantissima”, anticonformista. Come faceva un capolavoro del genere a non essere pubblicato? È un capolavoro che dovrebbe stare nei programmi scolastici accanto ai classici del Novecento.
Com’è lavorare con Mario Martone?
È come andare al luna park da bambini. Lui a set pronto, con le macchine e le luci pronte, dice “Valeria, Corrado, venite con me” e ti legge venti pagine del romanzo con una troupe ferma. È uno che ti contagia con la sua energia. Non manca mai di farti un complimento, ti fa stare a tuo agio. Non giudica, non mette ansia. È così sicuro di sé che può permettersi di chiedere consiglio a chi lavora con lui: il contrario del maschio alfa.
L’esperienza di Cannes con Fuori?
Un sogno. Non ero mai stato in concorso a Cannes. Mi sono detto: “Guardati tutto, non dimenticare nulla”. Era come se 25 anni di carriera culminassero lì, in quel momento. È stato come vivere la fiaba di Cenerentola. Non sapevo se stavo sognando o vivendo davvero.
Quei sette minuti di applausi a Cannes ci avevano fatto ben sperare. Poi però non è arrivato nessun premio. Per un film conta di più il percorso o il palmarès?
Assolutamente il percorso. È facile dirlo quando non vinci niente, lo so, ma lo penso davvero. Se un film è buono, dura nel tempo, a prescindere dai premi. Quest’anno, senza voler essere troppo “campanilista”, ti direi che la Palma si poteva intuire. C’era Panahi, un nome fortissimo. Io non ho ancora visto il suo film, non vedo l’ora di farlo, ma era prevedibile che la storia iraniana avesse un certo peso.
Considerando la sua situazione personale e politica, l’essere stato stato in carcere fino a due mesi fa con il rischio di tornarci per via del film e delle dichiarazioni fatte… era facile immaginare un riconoscimento importante.
Per quanto riguarda Fuori, credo che andare in concorso a Cannes, anche senza premi, sia stata una fortuna enorme. Dobbiamo essere grati al festival. Per me è stato un sogno.
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