456: una drammatica commedia familiare al Vascello di Roma
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456: una drammatica commedia familiare al Vascello di Roma

4 5 6. Padre, madre, figlio e un sugo perpetuo. E' la famiglia tradizionale di Mattia Torre che torna in teatro

456 - Cristina Pellegrino, Massimo De Lorenzo e Carlo De Ruggieri
456 - Cristina Pellegrino, Massimo De Lorenzo e Carlo De Ruggieri
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3 Marzo 2024 - 13.06


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di Alessia de Antoniis

4 5 6 di Mattia Torre al teatro Vascello di Roma. In scena il cast della precedente edizione: Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino, mentre Giordano Agrusta subentra nel ruolo dell’ospite.

4 5 6. Un padre, una madre, un figlio dall’inverosimile età di diciannove anni. Un dialetto inventato mescolando una strano tardo latino a idiomi del Sud. Un “sugo perpetuo” che cuoce da quattro anni ininterrottamente sul fornello della cucina, da quando la nonna è morta: “fine cottura mai”. Una tiella prestata e non restituita. Una famiglia aggressiva, incapace di comunicare civilmente, per la quale la sopraffazione è l’unica regola e l’offesa l’unica forma di dialogo. Un ospite che sembra essere un motivo di sospensione della faida familiare. Interruzione tanto provvisoria quanto precaria. Un’aspettativa. Regole antiche che dettavano l’organizzazione e i ruoli nelle famiglie che sopravvivono nel tempo.

4 5 6. Una drammaturgia che analizza la società partendo dalla sua cellula più piccola: una famiglia. Padre, madre, figlio. Forse un dio, rappresentato dall’inginocchiatoio dove, a turno, i protagonisti recitano una supplica, ma mai con carità cristiana. Sono richieste alimentate dai mondi bassi, mai preghiere devote. Una famiglia che racchiude in sé ciò che avvelena l’intera società: senso di precarietà, paura, aggressività, ignoranza, grettezza, povertà. Famiglia non nel senso di casa, sicurezza, affetti familiari. Semplicemente un microcosmo. Una cellula sulla quale Torre accende i riflettori che normalmente puntiamo sulla società tutta chiedendoci: ma come è possibile che accadano certe cose? Come se la violenza fuori fosse scollegata dalla violenza dentro: dentro le singole famiglie, ma anche dentro ogni singolo essere umano. Essendo la società nient’altro che la sommatoria di tutte le persone che la compongono.

In scena una comicità grottesca. A tredici anni dalla sua scrittura, il testo di Mattia Torre ancora strappa risate, nonostante quella società al limite sia diventata quotidianità di pubblico dominio; nonostante l’attualità delle dinamiche raccontate. Dialoghi che oscillano tra la violenza e la comica surrealtà, come quella lonza appesa al soffitto che i protagonisti si passano l’un l’altro. E, come quella lonza, sono tutti attaccati a un filo, anche loro; liberi di muoversi ma non di allontanarsi. Un filo creato dalle luci che perimetrano la scena, una sorta di ring dal quale nessuno di loro può uscire. Sempre sul palco anche quando sono fuori dal copione, richiamati all’improvviso dalle luci come pupazzi tirati da una corda. Una drammaturgia dove il senso del titolo resta inespresso fino all’ultima scena. Perché la vita non può avere un fine cottura mai: c’è sempre un modo per uscire di scena.  

Un cast rodato, affiatato. Un finale forte che risveglia lo spettatore a un senso più profondo di quello che fino a poco prima faceva ridere. Una fine tutt’altro che comica per uno spettacolo ben recitato ma che non lascia senza parole.

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