Etty Hillesum: testimone della Shoah e guida di resistenza spirituale
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Etty Hillesum: testimone della Shoah e guida di resistenza spirituale

Elisabetta Rasy esplora la giovinezza di Etty Hillesum in 'Dio ci vuole felici', rivelando la forza della resistenza spirituale."

Etty Hillesum: testimone della Shoah e guida di resistenza spirituale
Etty Hillesum
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22 Gennaio 2024 - 14.56


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di Antonio Salvati

Dopo la pubblicazione, agli inizi degli anni ’80 del secolo passato, del diario e delle lettere di Etty Hillesum si sono sviluppati – insieme allo stupore e all’ammirazione dei lettori – numerosi studi, convegni, libri dedicati a questa giovane ebrea testimone della Shoah (morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943, neanche trentenne) e divenuta un simbolo e una guida di resistenza spirituale di fronte al Male. Molte pagine tratte dal diario e dalle lettere di Etty Hillesum sono – ha osservato Eugenio Borgna – una «straordinaria inenarrabile testimonianza di tenerezza e di sensibilità, di delicatezza e di fierezza, di gentilezza e di mitezza, di solidarietà e di comunione con il destino di angoscia, e di dolore, della vita». Le parole della Hillesum sono intessute di una avvolgente tenerezza, e Borgna comprensibilmente si domanda come Etty, nella sua casa non lontana dal campo di concentramento di Westerbork, potesse scrivere queste cose all’ombra del dolore e della morte imminenti. «Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste di questi ultimi giorni, (…). Ma da qualche parte entro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre, e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio. Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino, in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino, e sono veramente tanti. Voglio che tu stia bene con me. E tanto per fare un esempio: se io mi ritrovassi rinchiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia la forza». E ancora: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non veda il dominio della morte, sí, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e questo spicchio di cielo ce l’ho nel cuore, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è cosí».

Ripercorrere il diario di Etty, nelle sue due edizioni pubblicate da Adelphi (quella integrale sono quasi ottocento pagine) è un esercizio utile, necessario. Lo ha fatto la scrittrice e giornalista Elisabetta Rasy con il suo libro Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza (Harper Collins 2023, 160 pp, 18 €), fin dalla sua giovinezza sfolgorata dalla lettura del diario di Etty: «certe frasi di questa inaspettata amica inquieta che veniva da lontano non le avrei più dimenticate: “E sii pure triste, semplicemente e sinceramente triste, ma non costruirci sopra dei drammi”; “Mi sto gradualmente abituando a me stessa”; “E se tu dai tanta importanza a te stessa, ti agiti e fai chiasso, allora ti sfugge quella grande, potente, ed eterna corrente, che è appunto la vita”. Ma non erano solo le sue frasi precise come un laser ad afferrarmi mentre leggevo, era il suo continuo ascolto di sé, la continua attenzione all’anima nella sua irriducibile individualità, nelle sue esperienze concrete di emozioni e pensieri, nel groviglio delle sue contraddizioni, nel suo sussultante rapporto con il mondo». Era l’insegnamento – aggiunge la Rasy – di un ascolto di sé spregiudicato, irriverente, «tanto più straordinario nell’epoca in cui avveniva, dove la morsa della Storia incarnata nell’orrore nazista voleva togliere ai perseguitati, come l’ebrea Etty, persino la possibilità di pronunciare la parola io. Cuore pensante di sé stessa prima di essere, come è stata conosciuta, il “cuore pensante della baracca” nel terribile campo di concentramento dove ha aspettato la morte, la ragazza Hillesum nei suoi eterni vent’anni è stata, e resta per me, la perfetta maestra della giovinezza: quella concentrata e conclusa in una breve età, ma anche quella che, con l’esercizio dell’attenzione, bisogna sforzarsi di conservare nel cuore perché la vita sia, come lei diceva con la sua fiducia nel valore della contraddizione, “una lotta di minuto in minuto, ma una lotta invitante”».

Un cuore pensante prezioso in un tempo in cui è cresciuta l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia. Si è andato smorzando quel patrimonio di tensioni, ereditate dal Novecento che tendevano a unire i destini oltre i confini. Giorgio La Pira le chiamava “tensioni unitive”. Hillesum scrisse fermezza che “odiare non è nel mio carattere”. Non è l’espressione di una ragazza ingenua e ignara. Lungo le pagine dei suoi quaderni, Etty costruirà sul rifiuto dell’odio il suo pensiero. Nessuna ingenuità, nessun facile sentimentalismo. È un’idea della vita che questa ragazza olandese mette a fuoco giorno dopo giorno, parola dopo parola. L’odio ferisce l’anima, pensa Etty. E con questa convinzione afferma che «una cosa, tuttavia, è certa: si deve contribuire ad aumentare la scorta di amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile». Una convinzione che scaturiva da una sapienza interiore e dalla consapevolezza, tipicamente ebraica, che la memoria gioca un ruolo nevralgico, costitutivo nella vita di ciascuno. Per Hannah Arendt «memoria e profondità sono la stessa cosa, o meglio, l’uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria». La profondità è una risorsa di libertà, sostiene Andrea Riccardi, di fronte ai prepotenti semplificatori del nostro tempo, invece in sé tanto complesso, anzi inspiegabile con le semplificazioni.

Su un muro di Auschwitz è scritta la frase del filosofo George Santayana, americano di origine spagnola, morto a Roma nel ’56: «Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo».

Uno slogan molto usato nelle giornate della memoria. È un concetto chiave. Ricordare perché non tornino gli orrori. Tuttavia, gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un eccesso di perdita della memoria e dalla marginalizzazione e dalla relativizzazione della storia. Tanto che un importante storico italiano, anziano, Adriano Prosperi, ha scritto un piccolo libro intitolato significativamente Un tempo senza storia. All’affievolirsi del gusto della storia e della memoria solitamente si accompagna – sottolinea Riccardi – a un diverso senso del futuro. Churchill, vincitore della guerra, anche scrittore di storia, sostenne che «più riesci a guardare indietro e più riuscirai a guardare avanti perché senza storia o memoria non si tiene dritto lo sguardo». Senza storia e memoria, non si tiene dritto lo sguardo verso il futuro. Anche perché storia e memoria ci includono in un noi. E Etty – come rileva il bel volume della Rasy – si sentiva parte di un noi, anche attraverso il suo stile umano contraddistinto da un percorso preciso: non la fuga, non l’odio, ma l’amicizia, l’amore, la preghiera. E, soprattutto, da un rapporto intimo con Dio, al punto che, ricorda la Rasy, quando tutto precipita e Dio sembra disperatamente lontano, lei ne diventa l’avvocato, lo difende, insiste che bisogna perdonarlo, che la responsabilità di ciò che accade è degli uomini, e che Dio va aiutato. «Dio non è responsabile verso di noi. Siamo noi a esserlo verso di lui». Nel luglio del ’42, mentre le minacce e il terrore crescono repentinamente, scrive: «M’innalzo intorno la preghiera come un muro oscuro che offra riparo, mi ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne esco fuori più raccolta, concentrata e forte. Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera diventa per me una realtà sempre più grande…». In maniera decisamente imprevedibile e indimenticabile scrive: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutarlo».

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