Il fascino del conte Cagliostro, l'arcitaliano
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Il fascino del conte Cagliostro, l'arcitaliano

A colloquio con Vittorio Giacopini, autore di un romanzo sulla figura del conte Cagliostro che osò ribellarsi al cinismo perverso della Chiesa di Roma.[Simona Maggiorelli]

Il fascino del conte Cagliostro, l'arcitaliano
Il conte Cagliostro
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26 Agosto 2016 - 00.30


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di Simona Maggiorelli

Cagliostro “massone, mago, alchimista e guaritore”. Figura di ribelle in una Penisola genuflessa al Vaticano. Ma senza la forza di un pensiero davvero alternativo. E per questo ridotto a vivere di espedienti. Come una sorta di arcitaliano appare Giuseppe Giovanni Balsamo (1743 -1775), detto conte di Cagliostro, nell’affascinante e complesso romanzo di Vittorio Giacopini, edito dal Saggiatore.

«L’idea chiave, la suggestione più forte da cui origina Nello specchio di Cagliostro. Un sogno a Roma, in qualche modo – spiega l’autore – è racchiusa in quella parola: “arcitaliano”. C’è un lunghissimo dibattito sul “carattere’ degli italiani”, un interrogarsi che va da Guicciardini a Machiavelli, a Leopardi, a Malaparte (e a Bollati). E che in fondo ha un tratto costante, un basso continuo: l’italiano è un carattere che non è un carattere, l’italiano è qualcosa che si afferra e non si afferra. Vive di maschere, imposture, adattamenti, di mancanza di una sponda – lo Stato, una coscienza civile, una Storia – e di inganni e disinganni, farse tragiche».

Una figura che tristemente ricorre nella nostra storia?

Ora se dovessi dire qual è una figura capace di afferrare questa specie di Proteo senza grandezza mitica, senza aura, beh mi vengono in mente in sostanza due figure: Cagliostro e Pinocchio. Soltanto che le cose sono tremendamente più complicate. A parte che la battuta che vorrebbe che in ogni italiano ci sia un mezzo san Francesco e un mezzo Cagliostro non è del tutto sbagliata, dobbiamo anche considerare che il nostro non è stato soltanto un ciarlatano, un truffatore. Il suo “fascino” era indubbio. Non era un incantatore polli da quattro soldi. Le corti d’Europa, artisti come Mozart e Goethe ne rimasero abbacinati; lo rispettavano (forse Goethe un po’ meno, ma è un’altra storia). L’altro aspetto che mi colpisce è il ruolo singolarissimo di quest’italiano senza arte né parte e certo senza particolari studi, senza scienza, nell’Europa dei Lumi, e dei Lumi al tramonto.

Da qui il titolo del romanzo: Nello specchio di Cagliostro?

Mi affascina aver trovato un personaggio-leggenda nel cui volto (sconosciuto) si specchia un’intera società, e una cultura. Quel periodo è stato come una grande occasione di condensa e davvero in Cagliostro per un attimo ha brillato tutto il peggio e tutto il meglio…anche degli italiani. Poi la lista di Cagliostri a metà, dei burattinai, si allunga all’infinito. C’è un Cagliostro in Mussolini, in Berlusconi, in Grillo-Casaleggio, indubbiamente, ma sono Cagliostri più burattini che burattinai. La verità è che la seconda metà del Settecento è stata un momento essenziale per la modernità e anche per l’Italia. Anche se per noi – e uno se ne stupisce – è stata essenzialmente un’occasione persa.

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Condannato dalla Chiesa cattolica al carcere a vita per eresia e rinchiuso nella fortezza di San Leo raccontato in termini tutti negativi dal compendio di monsignor Barberi, poi a lungo fonte di tutte le ricerche su Cagliostro. Lavorando direttamente sulle fonti cosa si scopre?

Il compendio del Barberi era in sostanza la requisitoria di un procuratore: tranchant, impietoso, denigratorio. Ma va detto anche che a quell’epoca si afferma per la prima volta quella cosa che oggi chiamiamo “opinione pubblica”. Così la storia di Cagliostro è anche una delle prime vicende di lotta tra poteri, o tra il Potere costituito e un irregolare che può essere alimentata da mille voci. Cagliostro è inchiodato alle sue colpe dai “si dice”, da accuse giuste e e pettegolezzi falsi. Ma Cagliostro riesce anche a diventare il fenomeno che è proprio grazie al medesimo, identico, meccanismo. Senza l’opinione pubblica, i giornali, le gazzette, i pamphlet, i suoi stessi libelli, le sue sparate, niente avrebbe consentito di distinguerlo dai tantissimi lestofanti-dottoroni-guaritori che avevano battuto le strade d’Europa in prima età moderna. Siamo in un raro istante della storia in cui tutto davvero si andava rinnovando. In particolare cambiava il “medium” attraverso cui passavano voci, idee, ideali, dicerie. Sullo sfondo c’è l’impresa dell’Enciclopedia: impresa immensa, una rottura assoluta col passato. Dal punto di vista del narratore è uno scenario perfetto, molto invitante. In tutto il libro pullulano spie e giornalisti proprio per questo….

Dallo spaccato storico affrescato nel romanzo emerge una penisola spazzata da venti reazionari, senza aver mai rischiato la rivoluzione….

A dirla tutta questo Paese che ha avuto la controriforma senza la riforma; la reazione senza la rivoluzione; e l’oscurantismo senza la luce dei lumi. Il tardo settecento poteva essere il momento di liberazione ma in Italia ha finito per essere costretto nelle gabbie di una stasi, di un arresto. Ma almeno in quella fase c’è stata un dialettica. Ma spetta agli storici dirlo. Dal punto di vista narrativo però bisognava cercare di capire cosa diamine accadesse in questo paese proprio quando c’erano tante sollecitazioni diverse, opposte, ricche, divergenti (il giansenismo, il gesuitismo, i lumi, i primi bagliori di rivoluzione, la diffusione, appunto, dell’opinione pubblica). Per fare un esempio, ma solo per capirsi, io ho provato a ragionare come Sciascia nel Consiglio d’Egitto: ogni epoca, ogni società, ha “la sua impostura”. È anche il mio tema.

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In questa implosione dell’illuminismo settecentesco che fa da sfondo al libro si assiste ad un rovesciamento delle parti: l’irrazionale è incarnato da Cagliostro mentre il cardinale inquisitore Zalada sembra già impersonare un “ratzingheriano” modello di fede e ratio. Una lettura azzardata?

Più che altro là è una questione dialettica. Al momento della condanna di Cagliostro, Goethe, già vecchio, fa un commento interessante, specie per uno come lui: “Per una volta anche Roma ha smascherato un inganno, ha fatto luce”. Per dirla con Danton la questione è il “tramonto” dei lumi. Cagliostro è il Mago che affascina la razionale Europa dell’età dei lumi. Come dire: è il punto di origine – di caduta – della dialettica dell’illuminismo. Ma la Chiesa che lo combatte, in lui non combatte tanto il “male” quanto altro: il grande complotto massone, i primi fiati della rivoluzione, l’ateismo, una forma estremista di illuminismo. Però lo fa ribadendo un suo modello di ratio (e un’idea di potere). Ora non è che Zelada sia ratzingheriano o abbia fede. Ma è lui – non Cagliostro – il vero protagonista del romanzo. Ovviamente, qui parlo di come l’ho raccontato io, la verità storica è secondaria. Cagliostro è un mito, una leggenda, è la voce di tutti, è un destino. Zelada – il mio Zelada – è un personaggio. In lui c’è l’altro volto dell’arcitaliano: la ricerca e l’arte del Potere. Allievo dei gesuiti (nella mia versione, naturalmente) è l’uomo che estingue i gesuiti: con freddezza e per calcolo. Cresciuto in un clima illuminista è per metà uomo dei lumi e della luce per metà agente delle reazione, dell’oscurantismo. La sua percezione è nitida: vede svanire centralità di Roma, della Chiesa, e contro tutto e tutti azzarda ogni mossa possibile per ribadirla. Sa che non può arrestare i tempi attorno a lui ma almeno prova a ritardarli, a rallentarli. Personalmente, mi affascinano i reazionari e detesto i conservatori. Quest’anima nera del cattolicesimo mi riguarda per quanto io sia ateo, scettico come un mulo, libertario di convinzioni e tutto quanto. In ogni caso, il “male” non sta in questo tipo di figure. E oggi soprattutto, oggi davvero il “male” si maschera di bontà, e belle parole.

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Protagonista tanto quanto i personaggi, Roma è una presenza fortissima nel romanzo. È la città che tutto contiene e tutto copre nel suo immobilismo. La città eterna è anche questo?

Certamente è un libro su Roma e sulla Roma in cui sono cresciuto. Anche letteralmente ho ambientato tutto il libro nelle poche strade o vie in cui sono nato negli anni Sessanta e che ho vissuto come un cosmo assoluto almeno sino ai vent’anni o giù di lì. Per molti versi il libro è anche una dichiarazione d’amore a questa città che ora detesto. Uno dei temi chiave del romanzo sta in questa opposizione tra l’attitudine al viaggio di Cagliostro e l’impressionante stanzialità di Zelada. Che è un prigioniero di Roma per quanto questa città voglia dominarla, controllarla, ecc. ecc. Credo che sia una maledizione tipica di noi romani, tutto sommato. Detestare un luogo e non riuscire mai a lasciarlo, non trovarne mai un altro altrettanto pregnante, altrettanto denso. Però non è questione di immobilismo quanto di sconcertante capacità di assorbire la storia, il mutamento, il tempo che passa. Roma nel Settecento è una città che muta in modo impressionante, clamoroso. A inizio secolo era un borgo o poco più; poi inizia la stagione del Grand Tour, ci sono i Giubilei e la città muta, si abbellisce e cambia pelle. Eppure qualcosa resta sempre identico a se stesso, muta e non muta. Nel libro volevo raccontare anche questa evoluzione…senza crescita. Non c’entra davvero niente tutta questa retorica da…. “grande bellezza”. Roma bisogna avercela dentro per raccontarla.

Tornerà a raccontarla?

Domanda perfida. La verità è che non so nemmeno se mi capiterà più di raccontare qualcosa. Sono pieno di dubbi e sono scettico. Però è vero: il romanzo segreto che sogno dentro di me è molto romano. Orwell diceva che a cinquant’anni uno ha la faccia che si merita e io aggiungerei che uno ha anche le ossessioni che si merita, in realtà. Magari tocca fare i i conti col proprio tempo. Ho una storia per la testa che riguarda la ‘mia’ Roma nel ‘mio’ tempo: dagli anni sessanta a oggi, in sostanza. È presto per parlarne ma detta in una battuta: la storia comincia coi “passeracci” (quelli che Venditti diceva: “so’ usignoli”) e finisce coi “gabbiani”. Staremo a vedere.

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