Sonata di Aaron Schuman: la straordinarietà dell’ordinario e l’approdo ad una rinnovata iconografia narrativa
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Sonata di Aaron Schuman: la straordinarietà dell’ordinario e l’approdo ad una rinnovata iconografia narrativa

L’Italia raccontata attraverso la fiducia riposta nelle impressioni sensoriali, il ribaltamento dell’abusato manierismo, l’esclusione dell’arido convenzionalismo e il congedo dall’interludio dei fasti fasulli. 

Sonata di Aaron Schuman: la straordinarietà dell’ordinario e l’approdo ad una rinnovata iconografia narrativa
"Sonata" by Aaron Schuman published by MACK.
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17 Gennaio 2023 - 16.05


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di Francesca Parenti

Mi ritrovo tra le mani un libro dal formato minuto, di dimensioni ridotte e dallo spessore meno imponente di tanti altri volumi fotografici. Sfiorandone la copertina mi accorgo, al tocco, della morbida texture e sono colpita dalla sua tonalità: la tinta trafiggente di un rosso purpureo, acceso e sanguigno, uno scarlatto di grande intensità, impreziosito lungo i margini rubini da una borduratriadica di sottili e decise linee nere che, con classe, incorniciano la doratura della parola Sonata,impressa a guisa di intarsio, un bassorilievo tattile in carattere tipografico di squisita sceltezza. 

L’essenzialità esteriore, inscindibile e sorretta dalla finezza nella cura dei dettagli e nella sobria eleganza della fattura editoriale, lo rendono somigliante, per affinità compositiva ed assonanza percettiva, ad una partitura musicale ed estrinsecano il consono crinale nella concessione ad oltrepassare la soglia introduttiva per giungere, intus et in cute, al tenore del contenuto riposto nell’intimità dell’interno.

L’opera che cingo a me, e che mi accingo a disserrare, è l’ultimo lavoro del fotografo, docente e curatore americano Aaron Schuman dal titolo confacente, ammaliante ed evocativo, di Sonata(MACK, luglio 2022, 120 pp, 45€) pubblicato a seguito delle precedenti monografie Slant e Folk,acclamate dal pubblico ed encomiate dalla critica internazionale. 

Dischiudendolo, incontriamo, in collisione dosata, generosa e benefica, accoglienza rassicurante e inquieto disorientamento nella convergente mitografia narrativa quale risultanza di una ricercaesplorativa condotta in Italia nell’arco di quattro anni.

Al confortevole sostegno dato dalla riproduzione di un’antica mappa in bianco e nero, riproducente alcune parti dell’Italia che, appositamente, troviamo in apertura e chiusura quale suggello e convalida dell’indagine svolta, funge da contrappeso compensatorio l’estinzione del normale apparato a corollario dell’impianto librario che siamo abituati a reperire: nessun testo, nessuna didascalia, nessuna data, nessun luogo, nessuna informazione di sorta ad accompagnare le fotografie. 

Nel deserto intenzionale dei riferimenti mancanti a cui appigliarsi e degli ormeggi elusi, la frase a seguire è l’unica presenza, l’iniziale e circolare guida indicativa in grado di chiarire la genesi dell’opera e motivarne il progressivo sviluppo: “al momento sono preoccupato dalle impressioni sensoriali… Posso imparare a guardare le cose con occhi chiari e freschi? Quanto posso assorbire con un solo sguardo? I solchi delle vecchie abitudini mentali possono essere cancellati? Questo è quanto sto provando a scoprire…” (da Johann Wolfgang von Goethe, Viaggio In Italia, 1786-1788).

Con Sonata veniamo catapultati, quasi scagliati, nella nostra penisola setacciata dall’autore in maniera sorprendente attraverso le rintracciate vestigia antecedenti (considerate e considerevoli) di numerosi altri viaggiatori che, come lui, l’hanno attraversata, osservata, studiata, descritta, raccontata, vissuta e, al contempo, interiorizzata in un’esperienza personale inevitabilmentericonsegnata a loro stessi e agli altri.

Schuman, tra tutti gli illustri predecessori, sceglie, volutamente, Johann Wolfgang von Goethe ed in particolare elegge proprio il dettagliato, temperamentoso e poliedrico resoconto del suo Viaggio in Italia, compiuto sul finire degli anni ‘80 nel XIII secolo, a sorgente generante, bulicame della propria creazione ideativa, produttiva ed esecutiva.

Il tedesco Goethe, ritenuto tra i pensatori più influenti sia dai contemporanei che dagli intellettuali delle epoche a venire, ricordato spesso e riduttivamente solo come scrittore, è stato anche poeta, drammaturgo, saggista, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale. Insomma, un uomo dall’infinito spessore che Schuman identifica, ut electionis, come punto d’avvio per il suo percorso italico seguendone le volontà e ponendosi i medesimi interrogativi che lui si pose ed esternò.

Infatti, quel che insegue l’artista e compone Sonatain costruzione funzionale a cascata repentina,sono anzitutto “impressioni sensoriali” nell’accezione etimologica ed esperienziale; percezioni dei sensi incorporanti l’ampiezza cognitiva e l’estensione conoscitiva che, tanto in Goethe quanto in Schuman, pervadono non solo il viaggio in Italia ma abbracciano l’intera esistenza e pratica artistica; regnanti appunti segnici in forma di viatico suggestivo, inquisitorio e, a tratti, di dissacrante redenzione.

Si rivela così un itinerario di tracce visive e percettive, un tragitto dovizioso di impronte e interpunzioni, un cammino di avvicinamenti e avvicendamenti fotografici compiuto nel corso del quadriennio perlustrativo dell’Italia (dal 2019 al 2022), sgorgante in un inaspettato Grand Tourdefinito econ azzardo, definitivo che, pur aprendosi e principiando dai rimarchevoli precedenti, identifica in Goethe l’eco erompente nelle emanazioni caleidoscopiche delle figure metonimiche d’investigazioni polimorfiche, sensoriali, fattuali ed intellettive.

Schuman indugia privo di adagio, lontano dall’adagiarsi, prossimo sia allo studium che al punctum: grazie a lui vediamo tutto ciò che non ci si aspetterebbe di vedere e che coincide esattamente con tutto ciò che in/consciamente abbiamo non solo già visto, ma assimilato al limitare del biografema(i corsivi si riferiscono ai concetti tratti dall’indimenticato testo di Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia).

Nel pellegrinaggio italico, e nella conseguente peregrinazione fotografica, incalzano galoppanti scritture sinestetiche che sorprendono, incuriosiscono, meravigliano e non si sottraggonoall’inseguito turbamento dello stupore diluito, pagina dopo pagina, nelle sequenze e nei balzi di audace temerarietà. 

Il colore, declinato tra eccesso e delicatezza, viaggia in una sinfonia di rimandi e contrasti: si dipanatra i gialli flemmatici e le fulminee striature rosse delle tele; l’incarnato roseo dei placidi corpi e l’ocra penetrante nei dipinti; gli azzurri e i blu contemplativi degli affreschi e il rubro ferino dei pesanti tendaggi nelle dimore nobiliari; i marroni lucidi delle cornici lignee e il bianco nitore, in modellato impeccabile, dei gessi, dei marmi, dei busti o delle statue; le trasparenze leggiadre dei vetri accatastati nelle botteghe artigiane o dei riflessi sovrapposti nel ritrarre, in souplesse, ilpassaggio tra interno ed esterno delle vetrine.

Imprescindibile è l’alternanza intrepida della simbologia religiosa e dell’iconografia profana, che compaiono in presenza massiccia e reiterata, rinvenute nei luoghi che subiscono inevitabilmente la ripercussione delle sovrapposizioni tra devozione e laicità: dagli occhi di Santa Lucia, simboli del suo martirio in offerta agli astanti su di una coppa, ad altari e cappelle di chiese; dalla scultura del Redentore, posizionata all’aperto ed innalzata sopra una colonna, affiancata da due altoparlanti ai lati, alle propiziatorie abitudini e atteggiamenti a metà tra scaramanzia, tradizione di costume e credenza popolare come il lancio di monete o lo sfiorare ripetutamente le mani di una santa fino a togliere la patina corvina dalla medesima statua, facendone emergere il metallo sottostante.

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Da qui si approda, con ardimento, alle locandine di squadre calcistiche e ai calendari fino ai poster di modelle discinte in pose lascive all’interno di probabili officine; si passa poi agli esercizi commerciali dove i pezzi di carne appesi in una macelleria si alternano a snack e bevande in bella vista sul bancone di un bar; si fluttua dalle chiavi e serrature di un ferramenta agli articoli di una merceria; dalle variopinte copertine di libri affollanti una biblioteca, alle acconciature realizzate,fotografate e attaccate nel negozio di un parrucchiere; dai particolari di abitazioni con muri scrostatialle crepe sulle pareti dei musei; dai fili elettrici pendenti a porte socchiuse per arrivare a mobili affastellati lungo le strade in attesa di essere portati in discarica o di finire accatastati in qualche soffitta.

L’elemento naturale, nella sua assidue praesentia, merita un’argomentazione analitica e una riflessione circostanziata. A tal proposito, è utile recuperare la precocità della distinzione prodromica del sociologo tedesco George Simmel in Saggi sul paesaggio (1913) tra natura come “l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’esistenza temporale e spaziale” e paesaggio, la cui “creazione richiede una lacerazione rispetto al sentimento unitario della natura universale” e per il quale “è assolutamente essenziale la delimitazione”.

Nel raffigurare pertanto natura e paesaggio, memore della ripartizione menzionata, l’autore si avvale, insieme al colore saturo o lieve, della sfocatura sapiente in alternanza con la perfetta messa a fuoco: ci conduce tra i sentieri di colline rigogliose e verdeggianti nel sole splendente; ci avvicina a cactus e palme nel curioso esotismo ormai integrato in molte zone d’Italia; ci mostra cespugli in fiore ed alberi da frutto dove anche la sovraesposizione interviene a rendere ancor più eterea la visione; ci riporta alla quotidianità con rose sui balconi o nei vasi adiacenti alle case; ci conduce alla devastazione causata dai roghi in zone vicine alle coltivazioni.

Esclusivamente alla natura è riservata la parte centrale del libro: l’unica in cui le immagini sono dotate di una palpabile consistenza porosa, generata da un bianco e nero impresso su carta uso mano e la sola in cui sono racchiuse entro la cortina di due pagine nere, che oltre a contrassegnareuna cesura tra il prima e il dopo di esse, creano un sipario che si spalanca in medias res su codesta media pars. Gli scatti si susseguono in sequenza continua, stampati fronte-retro o a doppia pagina, e riguardano un’unica regione, nuovamente menzionata da Goethe come “la terra dove fioriscono gli alberi di limoni, dove le arance brillano come l’oro in un’oscurità frondosa…”. Il nostro sguardo può ora sprofondare in un pacificante affondo immersivo nello splendore, ristorarsi nel lucore rifulgente, distendersi nel riverbero di uno sfavillante scintillio ed adagiarsi tra gli ulivi dalle foglie argentee, i loro frutti e tronchi che, nel loro essere i supremi ed assoluti protagonisti, affascinano con avvolgente soavità.

Inoltre, questa sezione è un ausilio esplicativo nel contribuire ad interpretare con coerenza il titolo e la struttura del volume. Schuman, con volontà manifesta, riprende la forma classica della sonata,ricalcandone la struttura compositiva articolata nella scansione di tre movimenti: un’apertura allegra o andante, un tema centrale o variazione, larga e corrispondente allo sviluppo e un momento finale di chiusura e ricapitolazione. Difatti, nell’accurato epilogo troviamo il panorama di un cielo notturno, racchiuso le tra fronde arboree e le chiome del fogliame, affiancato all’enunciato “Et in Arcadia ego”. L’accostamento estrinseca l’addizionale rimando consentaneo all’omonima tela giovanile del Guercino, realizzata all’inizio del ‘600, dopo il suo viaggio a Venezia e prima del soggiorno romano. Il dipinto risente della diffusione delle allegorie moraleggianti e, pur essendo in stretta connessione con il precedente Apollo e Marsia nel quale compare lo stesso gruppo dei due pastori, presenta l’aggiunta dell’iconografia del memento mori in ambito pastorale (identificabile nel teschio in decomposizione), derivata dalle Egloghe di Virgilio insieme all’iscrizione latina alla base dell’opera. 

La locuzione, abitualmente e letteralmente tradotta con approssimazione, “Anche io in Arcadia”, concede, in verità, ampio spazio interpretativo a seconda del tempo verbale non esplicitato che si decide, per sottointeso, di annettere ad essa e, conseguentemente, al soggetto (Ego) che può riferirsi sia alla presenza dell’artista quanto della morte in Arcadia. Eppure il paesaggio lunare colto da Schuman rievoca, in una palinodia crepuscolare, l’essenza del creato, l’illimitata potenza procreatrice della natura, nella continuità ciclica e nel compitare esistenziale: natività, vita, trapasso terreno e resurrectio. Discosto dall’occultamento deciduo, Schuman inseriscela morte e l’affronta mostrandola in inclusione consapevole, concepita e solenne. 

Nell’inventario dei soggetti elencati la figura umana non è carente bensì del tutto assente.

Ad esclusione di due immagini intrise di vigorosa amarezza e desolazione (una che ritrae un accumulo polveroso di ossa e l’altra di un’arcata dentale gettata come immondizia sul terreno), il suo essere totalmente mancante, riafferma con impeto la sua crescente onnipresenza attraverso l’azione solerte e stratificata, l’agire operoso ed incessante, gli atti continui e laboriosi che si sono succeduti nel corso del tempo, ovunque e su qualunque ambiente, luogo, opera. E dunque, per tornare a Simmel, si esplica nel paesaggio plasmato dall’uomo e da lui modellato da sempre.

Pertanto il vuoto dei riferimenti ordinari, ad accompagnamento e supporto, non può più arrecare alcun danneggiamento o cagionare privazione: i dettagli minimi e la figurazione complessiva, emergendo con importanza determinante, professano il loro essere in grado tanto di dis/orientare quanto, con tempra espansa, di orientare verso un immaginario riconosciuto e riconoscibile da noi autoctoni, dai visitatori stranieri, dai fruitori di Sonata.

Nel dipanarsi delle immagini non vi è nulla di casuale: il banale è tegumento, una pars pro toto scomposta e ricomposta da un fotografo che sa cosa fare, come farlo e perché farlo; l’ovvio è apparenza che dischiude una composizione innovativa in un riformato equilibrio solerte nel quale ogni minuzia è lì perché è solo lì che deve essere ed esattamente lì che deve stare. 

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Schuman lavora con attenzione perenne e, per non sostare in superficie, anche a noi è richiesta la medesima attitudine: una pre/disposizione all’impegno, una disposizione zelante e una propensione alla concentrazione. Approssimandosi alla sua opera, ogni singolo passo, nella progressione dellescoperte e nell’edificazione dei rinvenimenti, va analizzato con rigore: la frettolosità di uno sguardo approssimativo, sommario o sbrigativo non è ammissibile. 

È impreteribile invece, se si vuole arrivare al perno profondo delle fondamenta, la meticolositàcercata ricorrendo alle esigue tracce che l’artista sapientemente dissemina con accuratezza e sparge con acribia lungo il tragitto. Schuman esige e concede raccoglimento, sia nell’azione autoriale del raccogliere e carpire con occhio uncinante, che nell’accezione del raccogliersi per poter riconoscere e portare noi tutti a riconoscersi

Non disponiamo di sponde rassicuranti, ad esclusione di un potentissimo appoggio ancorante nel riferimento dotto dell’epigrafe di Goethe come incipit: siamo preda della marea altalenante, di direzioni curvilinee e perturbanti, di correnti in apparenza frastornanti eppure costitutive di un nucleo agglomerante ed elevato ad esergo. Non ci sono avvertenze o istruzioni per l’uso, la posologia e il dosaggio sono dispensate dall’affidamento alle “impressioni sensoriali”, alla fiducia riposta nelle nostre sensazioni: non è la bellezza estetizzante e inscalfibile che viene presentata, ma apposite sue porzioni, residui, rimasugli, avanzi e giustapposizioni; non vi è pre/confezionato manierismo e neppure decadenza intensa come decadimento. Non è l’insidiosa perfezioneampollosa che si propone o esibisce con affettazione, ma una distillazione visiva trasfusa, ricostruttiva e disposta con destrezza erudita.

Vi è, invece, l’avvicendamento di margini, l’avvicendarsi di pieghe, risvolti, anfratti ed antri che,come relapsi, diventano perfetti rinvenimenti e perfettibili ritrovamenti, supplicanti ironici, sacrificali e maieutici, postulanti attenzione antagonistica e risolutiva di un riformato tessuto iconografico. Vi è, iterum et semper, la rimembranza del passato, la memoria individuale e collettiva, il solco della tradizione, il richiamo colto, il collocamento esatto di uno sguardo epidermico, storico, esegetico e, necessariamente ma mai forzatamente, innovativo. Le riprese sono insolite in quanto, contenenti e non dimentiche della concezione classica di bellezza ed armonia, ma atipiche per le scelte compositive e nella realizzazione: la prospettiva deambula, il punto di vista risulta eteroclito, sfuggente alla consona organizzazione eppur soddisfacente la complessità progettuale rincorsa e raggiunta. Basterà soffermarsi su alcune per comprendere.

La prima, non a caso, mostra una figura religiosa tagliata dalla testa ai piedi, che esibisce gli occhi di Santa Lucia in offerta su una coppa al centro dello scatto. Simbolo del martirio della Santa e in virtù della loro collocazione dominante, diventano il focus iniziale e finale richiamando l’affrancamento, lecito ed opportuno, nel distacco dalle ovvie modalità del retrivo vedere e dai suoi pedanti clichés. La distanza è inconfutabile, ma non denota affatto ingenua abolizione.

Difatti, l’interezza della fotografia abbandona la stantia figurazione stereotipata ed aderisce al nuovo: il corpo vestito e troncato sulla destra è ri/equilibrato grazie alle pieghe del panneggio sulla parte opposta che delineano, sul deciso fondale purpureo, una scena penetrante, in cui si avverte la centralità della visione aggiornata, il recupero della sacralità nell’antico e il movimento tumultuoso e polarizzante dell’alveo tessile. La seconda prosegue nella traiettoria già energicamente tracciatadalla prima presentandoci un dipinto non identificato, ripreso trasversalmente e non di fronte, solo in parte visibile nella scena di un’eruzione vulcanica. Eppure, ancora una volta, l’anfora recisa per due terzi della sua interezza ed appoggiata sotto la tela, la crepa lungo il lato sinistro del muro e specialmente due punti in cui la stessa parete rosa è scrostata dai chiodi precedentemente messi e poi tolti (facenti emergere la lacerazione bianca retrostante) consentono di riequilibrare la totalità visiva. 

Anche quando le opere d’arte sono indubbiamente riconoscibili è sempre un brandello, un frammento, un lacerto che cattura l’attenzione e la sublima in puro colore, pura materia, pura visione impressiva: nel caso della Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, pala d’altare conservata nella Basilica di Sant’Agostino a Roma, sono i particolari dei piedi non limpidi del penitente inginocchiato e della cornice marmorea, rinvenuti nell’angolo in basso a destra; mentre nella Danae di Tiziano, collocata presso il Museo di Capodimonte a Napoli, è la densità stessa della pittura, al contempo oleacea, aggrumata ed indurita, a mischiarsi con la sinuosità della nudità e la sensualità della postura, nella luce che tange radente il segno pittorico.

Le immagini risultanti, dalle peculiari curiosità interrogative, distintive ed atmosferiche, sono lo zampillo terminale che affonda le radici primigenie in un sottosuolo teorico complesso, allusivo e dai molteplici riferimenti intellettuali esplicitati nella pratica del lavoro compiuto: dallaFenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty alle riflessioni di John Berger nell’illuminante saggio Sul guardare; dall’universo dei pensieri affilati, perspicaci e penetranti, sospesi tra “idées” e “rêveries” degli Scritti sull’arte di Charles Baudelaire ai contenuti espressi da Gillo Dorfles in Elogio della disarmonia e Le oscillazioni del gusto; oltre ai già menzionati testi La camera chiara. Nota sulla fotografia di Roland Barthes e Saggi sul paesaggio di George Simmel.

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Sonataesito di una sfondatura d’integerrima durezza dall’inutilità sterile e dal manierismo inconcludente, nel diradare in una riduzione sistematica le ridondanze infruttuose e inaridenti, lima, taglia ed esclude le diffuse rappresentazioni, le abituali raffigurazioni ribaltando l’inclinazione assiale dell’abusato manierismo, delle costrizioni artificiose, dell’arido convenzionalismo assetato di accademismo imitante e, così facendo, ricongiunge il routinario pudibondo alla straordinarietà dell’ordinario.

Gillo Dorfles, nella folgorante introduzione a Elogio della disarmonia, si pone (e ci pone) le domande giuste per avvicinarci alla comprensione dell’opera di Schuman: “che cosa potrà sorgere, allora da questo decadere di tradizionali certezze, ma anche da questo pullulare di forze tumultuose e forse feconde? E quali criteri (visto che di norme e leggi non è più possibile parlare) possono essere posti alla base di nuove eventuali correnti di pensiero? E, soprattutto, di rinnovate forme di percezione, di rappresentazione?” 

Il responso si trova sia nelle parole seguenti di Dorfles che in Sonata, trattandosi dell’esplicitata “necessità d’un recupero dell’intervallo” che bisogna ristabilire e della “restituzione di elementi e momenti che traggano lo spunto dall’immaginario: dunque dal mitico, dall’onirico, dall’irrazionale, dal fantasmatico. Elementi che, però devono essere legati a un diverso modo d’intendere, non solo le cose della vita, le motivazioni etiche, ma anche tutto quell’insieme di dati, di istinti, di impulsi che stanno alla base di ogni creazione artistica.

L’immaginario è certo un territorio che merita ancora d’essere esplorato”. Nella loquela di Dorfles,si posiziona l’artista e si articola Sonata che, con la “ritrovata coscienza intervallare” inscindibile dal ri/ottenimento dell’immaginario, “dovrà essere sempre più legato strettamente a delle situazioni che non possono essere quelle statiche, armoniche, simmetriche che costituivano il piedistallo per le creazioni e le fruizioni di epoche auree, ma dovrà invece abbracciare nuove costanti (anzi in-costanti) espressive che potremo, sia pure con approssimazione e provvisoriamente, definire attraverso i concetti di dissimmetria, disarmonia, disritmia eccetera.”

Nelle fotografie di Schuman vi è onestà, coraggio, ingegno, freschezza, giovinezza della visione, ma anche l’intonazione di un ubi consistam perpetuo e necessario, congiunto alla vis ardente e desiderosa di oltre/passare, senza mai bi/passare, per dileguare la prigionia della stantia, desueta e retriva rappresentazione; vi è la rivelazione di una promessa che per avverarsi non estingue gli interrogativi, ma li alimenta.

Nella critica acuta e caustica ai Salon, Baudelaire sentenzia: “non vi è nulla di più imbarazzante che dare conto di opere che rispuntano ogni anno con le stesse disperanti perfezioni.” Ebbene, termini così precisi ed appropriati per l’azione autoriale intrapresa in Sonata e le immagini che lasostanziano, se traslati nel congruo contesto, non si potrebbero reperire.

Esse sono schegge mordaci, frazioni illustrative, orme d’esperienza, coacervo districato in potenti attivatori ottenuti mediante un editing presumibile e inesorabile, che arrivano impavide, mirate come un dardo e si posizionano in una veduta complessiva di strabiliante chiarezza.

Ogni scatto è un barlume di lucidità stilisticamente intriso di “agevolezza ardita” nella compresenza di “indole del frammento e carattere della composizione”, per usare ancora alcune locuzioni care a Charles Baudelaire e ricorrenti nei suoi Scritti sull’arte.

Il conforme, l’ordinario e il confacente si ritraggono di fronte alla pleiade del talento partorita dauna meditata profanazione epifanica. Il paradossale traspare nella necessarietà, l’apparente insolenza diviene inevitabile nell’improvviso ed inatteso, in quanto ri/conosciuto, ri/conoscibile e, finalmente, conosciuto. Ecco, il recupero di una solennità soddisfacente, di un Grand Tour palindromo ed unico che, pur mantenendo traccia di tutti i precedenti, svetta e s’innalza su di una rinnovata e florida eufonia.

Ogni immagine, potente miccia dall’innesco narrativo, palpita di un’energia arcana ed enigmatica, pulsa d’un battito misterioso e magnetico, vibra di fremiti temporali e testimonianze spaziali, vive di e in un’attrazione segreta eppur dischiusa ai nostri occhi.

Plenilunio iconografico e iconologico, inattesa mescita geodetica, Sonata riapproda ad una nuova classicità, ad una abbacinante armonia ontologica: la sola, sconcertante e possibile oggi, l’infrequente e in/frequentata, landa inabitata e, in gran parte, ancora incolta e inesplorata.

Schuman, avventore fluente di connubi, scopritore di ammalianti legami inaspettati, fuggitivo dall’obsolescenza tramite la presa oculare e intellettiva, per non cadere nella trappola dell’anacronismo, pur cibandosi dell’appetibile valore delle suggestioni del passato e impugnando le cronache dei viaggiatori precedenti, afferra la permanenza e stringe l’attualità della contingenza.Il preannunciato congedo dall’interludio dei fasti fasulli si è compiuto.

La coesistenza di fruizione estetica, patrimonio simbolico, trasmutazioni percettive, consumabilità concettuali e fragranze appetibili nel rinnovato valore semantico dell’immagine, elevano Sonataoltre le fratture valicate senza traumi rovinosi per lo scibile veicolato.

Tra misteri e incanti, escursioni mentali e incognite reali, suggestioni psichiche e attrazioni concrete, eredità documentali e retaggi culturali, Schuman apre una breccia nell’insolutoesortandoci non solo a trovare il nostro posto nel mondo, ma a reperire in noi il posto del mondo.

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