Paola De Pietri: tra la tessitura onnipresente del Logos e l’Anthropos ovunque
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Paola De Pietri: tra la tessitura onnipresente del Logos e l’Anthropos ovunque

Paola De Pietri: una doverosa ed esatta conversazione fotografica con il paesaggio attraverso la poetica ossimorico risolutiva del noi nell’hic et nunc universale.

Paola De Pietri: tra la tessitura onnipresente del Logos e l’Anthropos ovunque
La mostra di Paola De Pietri
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26 Ottobre 2022 - 17.27


ATF

di Francesca Parenti

Il nitore e la pulizia dello sguardo di Paola De Pietri sono di una purezza impeccabile e precisione disarmanti.

La sua puntuale ricognizione fotografica, compiuta nell’arco di anno (dal 14 febbraio 2019 al 13 gennaio 2020) attraverso le campagne emiliano-romagnole nel ritmico susseguirsi delle stagioni,diviene apoteosi e trionfo culminante di un’indagine che invoca descrizione e ricordo, in equilibrio perfetto tra mutamento perpetuo e fissità implacabile, in bilico allineato tra apnea reminiscente ed emersione delineante, nell’obiettiva convinzione che il traguardo non coincida con il raggiungimento di una meta predefinita ma si dispieghi, semmai, nel situarsi relazionato alla logica articolazione del cammino ininterrotto e del movimento incessante.

Tale ricerca è confluita in Da inverno a inverno. Immagini attraverso le campagne dell’Emilia-Romagna (Marsilio Editori, Prima edizione febbraio 2021, pp.352, €50, a cura di Silvia Ferrari), la sua ultima raffinata monografia che nasce da una committenza promossa dall’Istituto Beni Culturali dell’Emilia-Romagna, nell’ambito del progetto di studi sul territorio significativamente denominato <<Riscatti rurali>>. Il volume si compone di circa duecento fotografie, in bianco e nero e a colori, accompagnate dai testi critici di Stefano Catucci e Antonello Frongia e dal ragguardevole graphic design dello Studio Sonnoli. Nella fattura e composizione editoriale, esso riflette in maniera speculare, il racconto e l’interrogatorio che l’artista intreccia con l’universo rappresentato: le date cospargono la copertina, di un celeste ceruleo, creando all’interno una costellazione ripresa degli ambienti attraversati e riproposti nella medesima disposizione a galassia. 

Una similare accortezza compositiva si riconosce nella sapienza con cui Da inverno a inverno è stato esposto presso la Galleria Peola Simondi di Torino (dal 20 maggio all’11 ottobre 2022), con un allestimento spaziale che riflette estrema attenzione ed irreprensibile cura, come evidenziano le parole di Antonello Frongia che rimarca “questa tensione tra presenza e distanza, tra la soggettività dello sguardo e la precisione dell’immagine, tra l’io implicito di un osservatore nascosto e l’autoevidenza del paesaggio. Paola De Pietri si colloca nel solco di un pensiero saggistico che nel contatto materiale con il mondo, nel tastare l’esterno con piedi mani occhi, trova motivo e necessità per una riflessione informata sul proprio andare e sul nostro essere nei luoghi”. 

Il viaggiare cadenzato, eppur doveroso, si avvale di una visione che, con leggerezza di calviniana memoria e una discesa di proustiana ascendenza, plana sul paesaggio e vi atterra con schiettezza, per registrarne la suprema spontaneità e, al contempo, per svelarne le altrettanto assolutenecessarietà, permanenza e complessità. Doti mai mancanti, sempre riconosciute e riconoscibili, anche nei numerosi progetti precedenti di un’artista che, nata a Reggio-Emilia nel 1960, ha esposto le sue opere nelle più prestigiose sedi nazionali ed internazionali.

Accarezzando il territorio, con quella naturalezza e genuinità che appartengono solo a chi detienepiena consapevolezza del mezzo, completa conoscenza delle sue possibilità interpretative ed ermeneutiche, così come una viscerale sapienza della fenomenologia dell’immagine, la De Pietri può posarsi, giorno dopo giorno, sulla geografia esteriore e i suoi mitemi (siano essi un dettagliominimo o una veduta estesa) per traghettarli mirabilmente al cospetto della geografia interiore, facente parte della memoria collettiva nel riconoscibile, esperito ed identitario.

Da inverno a inverno indossa l’habitusossia l’agire situato nel cosmodi un grandioso poema epico, sorretto dalla salda tessitura composta di versificazioni iconografiche e raggiunge totale pienezza concedendo al lettore di goderne la ricchezza stratificata, destreggiandosi tra l’agile nitidezza, l’agevole scorrevolezza, e arriva all’impetrazione dell’inderogabile con connotazioniconcettuali, evidenze pedagogiche e urgenze antropologiche. All’interno di una possente cornice narrativa, in cui ogni singolo elemento è definito con meticolosità diligente, prende vita unarcipelago di luoghi, date, stagioni e, ad interim, si espande in progressione la conversazione con le campagne. Il paesaggio rurale, suggerisce la fotografa, è dotato di loquacità e si esprime in un idioma comprensibile. Sboccia così un colloquio in cui si distinguono andamenti ritmici differenti, assecondanti la specificità delle riprese: ci si ritrova al cospetto di due spiriti in dialogo, entrambi ardenti e desiderosi di trovare espressione comunicativa in un germogliante e progressivo affresco pittorico che l’uno offre spontaneamente e l’altra afferra, con virginale e illibata saggezza, porgendolo ai fruitori.

Sfogliando il volume si avvertono le sonorità ritratte (l’impalpabilità di una piumaggio; il frusciodel vento tra le fronde arboree, gli steli dei fiori e i campi di grano; il brucare degli animali al pascolo; lo scorrere acqueo dei torrenti e il silenzio nell’immobilità dei laghi; il ticchettio del passare del tempo, nell’accavallarsi dei mesi e il dipanarsi delle stagioni); si vedono i colori impressionati (il lilla vivace dei frutteti in fiore; il giallo del fieno; il marrone materico e nerboruto dei tronchi degli alberi; l’ocra dei tetti, dei muri con mattoni a vista, dei porticati e fienili dei casali rurali.

Il bianco dei vitelli, degli animali da cortile o delle indicazioni e segnaletiche stradali che costeggiano i campi; il grigio poroso degli stradini ghiaiati o dei polverosi spazi del lavoro attigui alle abitazioni; il verde pulsante e vigoroso dei prati colti o incolti, dei giardini curati, della vegetazione spontanea e delle erbacce che sfidano la durezza dell’asfalto e fuoriescono da esso in ciuffi disordinati ma tenaci; la tinta nebbia che avvolge e sospende cieli, coltivazioni, presenze naturali, spazi attraversati dall’operosità umana) e si annusano le essenze olfattive (l’effluvio fresco ed umido della pioggia e dei boccioli; l’odore del bestiame e dell’erba; il profumo dell’esplosione primaverile in natura). La stimolazione sensoriale si eleva allo spessore del necessario, si erge alla valenza del rilevante e si dispiega alle altezze liriche della consistenza.

Ciascun albero è sentire universale di tutta la possibile vegetazione, una singola zolla di terra diviene simbolo dell’intero terreno naturale e cosmico, ogni casa (dal tipico aspetto rurale, dall’architettura definita sulla base del legame con il lavoro contadino e per questo dotata di un’estetica peculiare e ad esso funzionale), è paradigma globale di dimora: in ogni coordinata spazio-temporale, emerge il legame inscindibile dell’essere nel mondo, di farne parte, di vivere grazie ed in esso. Per questo, le textures si sfregano sulla nostra pelle, un rumore impercettibile o un frastuono fragoroso salgono distintamente alle nostre orecchie, la bruma o la luce penetrano i nostri sguardi, gli elementi (distinti e sempre uniti) entrano nelle nostre anime riscoprendo un immaginario, magari as/sopito in alcuni, ma, per molti, in/dimenticabile nonché in/dimenticato.

È forse la vicinanza, così esatta e potente, a far sì che ognuno di noi possa immediatamente riconoscere e riconoscersi attraverso il recupero proprio di quei luoghi e il ritrovamentocoscienzioso esperienziale precisamente in quegli scatti. Nel legame di adesione reciproca risiede l’appartenenza: un’unione relazionale, volteggiante tra levità e possenza, un apprendimento della libertà consenziente ed autorizzante a conoscere indentificandosi. In quel rapporto, pare ricordare la De Pietri, vorticano molte ferite ma la sua sopravvivenza non è minacciata, anzi garantita dal possesso vicendevole.

Sono il vissuto autoregolante dell’omeostasi, nell’accettazione non contemplativa ma partecipativa,ed il ricevere come strumento di mediazione, condivisione e connessione ad evitare inutili tautologie: la fotografa afferra totalità ed esistente nella fusione dell’esistente con la totalità.

Le sequenze di immagini, presentate in un frame che disegna nell’alternanza dei pieni e vuoti la frammentarietà della nostra percezione e delinea la complessità dei fenomeni, sono espressione di un’umanità a cui apparteniamo, nella quale è possibile il processo di individuazione, inteso come possibilità di esserne parte.

Delicatezza e gravità sono gli impulsi conoscitivi, l’incitamento e il movente che stimolano e agitano un mondo che non è plasmato o ricreato, ma sezionato e scandagliato senza che nessuna sutura posteriore sia necessaria, in quanto il suo corpo e i suoi parametri vitali sono intatti.

Un’investigazione non chirurgica eppur rigorosa in maniera sconcertante, una dissezione che nonammalia con tentativi di abbellimento o ricorrenze nostalgiche, ma che avvolge e scalda servendosi dell’elegia dell’hic et nunc. Un qui ed ora funzionale alla genesi di una poetica che, immune dall’autoreferenzialità, dispensata da contaminazioni improduttive, esentata dal contrastante,diviene semmai ossimorico risolutiva.

Se la figura umana è pressoché assente, l’Anthropos è invece ovunque. Così come il ricamo degli spazi è tessitura onnipresente del Logos. È l’Axis mundi che, nella lezione dell’antropologia culturale, non possiamo scorgere ma solo percepire, in quella ineccepibile funzione di collegamento che, per l’appunto, lega e tiene uniti gli elementi visibili ed invisibili.

Tra il rebus degli incontri risolutivi e nella clessidra dell’intimo, la fotografa ci invita ad essere commensali consapevoli, sussurrando inclusivamente che siamo circondati, dappertutto e sempre, dall’importanza e dall’importante: è solo nostro il compito di non dissolverci nella perdita.

Lo ripete ancora nel dipanarsi delle pagine: non è mai troppo tardi per ritrovare e ritrovarsi, siamo ancora in tempo. E, se è poco (forse), mai abbastanza (talvolta), resta conditio sine qua non per salvarsi dal vagabondaggio errabondo e futile di un esistenzialismo fatuo.

Il traguardo è raggiunto da Paola De Pietri e la sua misura è afferrata anche da noi. Allora sostiamo, nel territorio d’anima dell’immanente. Perciò innalziamoci, in cima all’immaginario tangibile dell’esistente. Ed ora eccoci qui. Finalmente, autenticamente, consapevolmente dentro noi stessi. Eccole, dunque, ri/comparse le nostre radici: la vertigine della consapevolezza e il conforto dell’appartenenza.

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