'Malgrado tutto' e 'Percorsi di vita': i due testi di Miguel Benasayag escono in un unico libro
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'Malgrado tutto' e 'Percorsi di vita': i due testi di Miguel Benasayag escono in un unico libro

In Malgrado tutto Benasayag racconta la sua terribile detenzione. Fu arrestato a ventun anni mentre militava nell'Esercito rivoluzionario del Popolo im Argentina.

'Malgrado tutto' e 'Percorsi di vita': i due testi di Miguel Benasayag escono in un unico libro
Miguel Benasayag
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28 Settembre 2022 - 23.08


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di Antonio Salvati

In Italia Miguel Benasayag divenne noto al grande pubblico quando nel 2004 uscì il suo volume fortunato, scritto insieme Gerard Schmit, L’epoca delle passioni tristi (edito da Feltrinelli), nel quale ci raffigurava un paesaggio sociale devastato dal neoliberismo, dominato dall’individualismo sfrenato, dal mito della prestazione illimitata, dalla competizione senza quartiere.

Il libro afferma che «la nostra epoca sarebbe passata dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia ad un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo», rischiando di farsi trascinare «in un discorso sulla sicurezza che giustifica la barbarie e l’egoismo e che invita a rompere tutti i legami, un discorso che assomiglia come una goccia d’acqua al discorso sullo “spazio vitale” tenuto nella Germania indebitata e disperata degli anni trenta». Spiegando al lettore di non voler essere «né ottimisti né pessimisti» ma dei pensatori critici, gli autori de L’epoca delle passioni tristi si chiedono «come resistere in questo mondo di bruti», dove le passioni tristi – l’impotenza e il fatalismo – non mancano di un certo fascino. «La complessità del tutto naturale del vivere è forse diventata patologica?» si (e ci) chiedono Benasayag e Schmit: «Con gradazioni diverse, tutte le situazioni che incontriamo generano sofferenza. Ma sono davvero tutte di competenza della psicologia?

Nella loro diversità, hanno alcuni punti in comune: il carattere ansiogeno, i passaggi violenti all’atto (compresa naturalmente la violenza su di sé), un sentimento di emergenza, di crisi e di destabilizzazione». E poco dopo: «sicuramente il fatto di vivere con un sentimento (quasi) permanente di insicurezza, di precarietà e di crisi produce conflitti e sofferenze psicologiche ma ciò non significa che l’origine del problema sia psicologica». Quanto sostenuto rinvia al sociale, alla politica e rimanda alla razionalità e all’irrazionalità dell’agire individuale e collettivo. «Se pensiamo alle speranze suscitate dallo scientismo, non possiamo non constare tutta l’inquietudine e la tristezza provocate da questa evoluzione [verso l’irrazionalità].

Resta tuttavia una certezza e non da poco: che questa tristezza si può superare. Ed è la forza di questa convinzione che ci guida nella formulazione di ipotesi per l’accoglienza e l’accompagnamento in psichiatria. Siamo convinti che il pessimismo diffuso di oggi sia esagerato almeno quanto l’ottimismo di ieri. O meglio, per noi clinici, impegnati quindi nella prassi effettiva, il pessimismo e l’ottimismo rimangono categorie troppo passive e immaginarie. La configurazione del futuro dipende in buona parte da ciò che sapremo fare nel presente».

Filosofo e psicanalista, nato a Buenos Aires nel 1953, Miguel Benasayag ha studiato Medicina in Argentina. Ha militato giovanissimo tra le fila della guerriglia guevarista, pagando con più di tre anni in carcere durante la dittatura militare. Possedendo la doppia nazionalità franco-argentina (la madre, ebrea francese, aveva lasciato la Francia nel 1939) e grazie a un programma speciale per i detenuti francesi, nel 1978 esce di galera e si stabilisce Parigi, dove inizia la sua carriera di ricercatore ed accademico, realizzando studi nei quali fa riferimento al libertarismo quanto al ripensamento di alcune idee-chiave del pensiero contemporaneo, a partire dai rapporti tra individuo e potere, libertà e sistema, salute e disagio psichico.

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Fonda il collettivo Malgré Tout ed entra a far parte dell’Université populaire de la cité des 4000 di La Courneve; dal 2008, dirige il Laboratorio di Biologia teorica presso il Campo biologico di Buenos Aires. Quarant’anni dopo la pubblicazione del suo libro Malgré Tout e vent’anni dopo quella di Parcours, in Italia escono i due testi, raccolti in un unico libro, Malgrado tutto. Percorsi di vita (Jaca Book 2022, pp. 228 € 24).

In Malgrado tutto Benasayag racconta la sua terribile detenzione. Fu arrestato a ventun anni. Il libro è stato scritto poco dopo la sua scarcerazione e il suo trasferimento in Francia, quando faceva ancora parte dell’ERP (Esercito Rivoluzionario del Popolo, «continuavamo a dirigere azioni clandestinamente in Argentina e internazionalmente»), «quando ancora non sapevo che tutti i desaparecidos sarebbero stati uccisi o venivano uccisi in quel momento, quando ancora non sapevo che la mia compagna Patricia era appena stata catturata né che Rafi, mio fratello (non di sangue, ma che è cresciuto con la mia famiglia) stava per partecipare a un’azione male organizzata dei Montoneros che l’avrebbe condotto alla morte». 

Non ha solo descritto gli orrori vissuti. Ha scritto «per coloro che, ancora liberi, possono essere arrestati da un momento all’altro», cercando di trasmettere la lezione tratta dalla sua esperienza: come fare per evitare di disintegrarsi, come assicurarsi di opporre una resistenza efficace. Qui stanno l’originalità e il valore di questa testimonianza, come ha riconosciuto nella sua prefazione David Rousset, noto esponente della resistenza francese arrestato dalla Gestapo nel 1943 e deportato nel lager di Buchenwald dove venne liberato dagli americani.

In Parcours, volume scritto insieme a Anne Defourmantelle, Benasayag cerca di spiegare, attraverso un percorso («il “mio”»), come la vita non sia qualcosa di personale. Dopo l’uscita del carcere Benasayag constata con una certa sorpresa che ciò che differenzia il carcere da ciò che c’è fuori non è la libertà. La libertà non ha a che vedere con l’essere dentro o fuori dalle mura, «ma con il fatto di prendere atto o meno delle situazioni in cui viviamo, e più in generale del destino. E bisogna arrendersi all’evidenza, me ne stupisco ancora io stesso: spesso è più difficile essere liberi fuori dal carcere che dentro il carcere». 

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È più complicato “essere” liberi fuori dal carcere «perché il confort è immensamente più grande, il livello di tranquillità pure, ed è molto più facile “divertirsi” (…) Fuori dal carcere è invece molto più difficile non diventare un cretino, un collaboratore passivo, un indifferente, perché le sfide e i limiti dell’epoca, la realtà della distruzione e dell’oppressione sono sempre un po’ più “lontane” dalla vita quotidiana e tranquilla che si conduce, sempre un po’ offuscate». Quando sei in carcere, la vita quotidiana è segnata dall’oppressione e dalla repressione immediate.

Se sei “in libertà”, c’è bisogno di un’allerta, di un’attenzione maggiore fuori dal carcere per non cadere nella trappola del «realismo metafisico dell’economia», per non essere intrappolati nelle nevrosi e nella tristezza «senza riuscire a conservare una piccola parte di potenza necessaria per occuparsi di politica, di filosofia, insomma, per vivere… » Vivere significa uscire «dalla trappola della vita personale che è valutata tramite la griglia di benefici e rischi, di profitto, di confort. In effetti, l’impegno sembra costituire, agli occhi dei nostri contemporanei, soltanto un rischio inutile ed è sempre più difficile capirne le motivazioni: nella nostra società diventa quasi incomprensibile l’assunzione di un impegno, come quello della guerriglia, che può condurti al carcere, alla tortura, alla morte tua e dei tuoi cari».

Ma il fatto che ciascuno di noi sia individualista non fa sì che esistano individui separati; al contrario, non esiste nulla di più massificante dell’individuo. La massa e l’individuo sono le due facce della stessa medaglia. Infatti, Benasayag contrappone la persona all’individuo: «la vita non è individuale. Nella nostra società, ci rendiamo conto che il discrimine è tra la vita individuale e la molteplicità… Vi è chi dà vita ad associazioni di individui; la domanda non è: “Sono solo oppure sono con altri?” ma «sono nell’ambito di una molteplicità che lotta per la vita contro l’utilitarismo, oppure nell’ambito di associazioni dove, in quanto individui, ci sforzeremo di essere ancora più utilitaristi nella standardizzazione? (…) Vi è dunque una confusione tra i legami di solidarietà che si creano e un’associazione tra individui che si uniscono per trarre un vantaggio ancora maggiore dall’utilitarismo; è qui che il tribalismo trova il suo vero limite».

La tristezza della società è creata in parte dalla personalizzazione della vita e dai conflitti vissuti dalle persone.  Benasayag insiste: la vita non è qualcosa di personale! Per il filosofo argentino astrarre le nostre piccole questioni personali dal resto delle situazioni che viviamo non ci permette di vederci più chiaro, «né di elaborare soluzioni più efficaci, ma al contrario crea delle realtà astratte, virtuali, in cui non possiamo fare nulla. (…) Contrariamente a quanto suggerisce la falsa saggezza dell’abbandono dei problemi del mondo a vantaggio dei propri, se vi è un ambito in cui gli esseri umani non possono in alcun modo superare le sovradeterminazioni, è proprio la loro vita personale. È nei rapporti affettivi e intersoggettivi che le persone vengono maggiormente sovradeterminate. La sovradeterminazione è pressoché totale, completa. Perciò, l’idea di tenere un profilo basso, di non lottare contro la miseria nel mondo, né per la solidarietà tra gli uomini, e invece cominciare facendo pulizia in casa propria e cercando di vederci chiaro nei propri rapporti intersoggettivi, è una trappola». 

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Questo significa entrare in un tunnel senza fine, sempre più buio, perché «quando la vita diventa una questione personale, essa diviene di fatto ingovernabile, incomprensibile; diviene pura oscurità, il che non può che causare una sofferenza aggiuntiva. La persona va allora alla ricerca di dei “perché” e dei “come” che non si trovano all’interno dell’area da essa analizzata. È in un certo senso una caricatura della caverna di Platone: tentiamo di correggere le ombre, mentre i fili vengono tirati dall’esterno». E in questo scenario cresce la diffusione del male il male e della malvagità che – avverte «non sono il frutto di una decisione, bensì una deriva alla quale non si resiste». È quella che chiamiamo, con Hannah Arendt, «la banalità del male», che si costruisce a poco a poco, senza pensarci. Il male non è altro che voltare le spalle in ogni situazione, fare i distratti; «il male non è altro che quel processo infinitesimale attraverso il quale ci si può trovare a svolgere la funzione del peggio».

Il male è anche credere che essere liberi significhi esercitare il proprio libero arbitrio, nell’ambito di una vita che, «finalmente affrancata dalle catene della colpa, si sbarazzerebbe contemporaneamente anche di ogni “dover fare”, di ogni responsabilità». In realtà, essere liberi significa farsi carico di tutto il peso di un destino: pur senza averlo deciso, siamo responsabili delle nostre storie. In tal senso, il volume di Benasayag ci offre la possibilità di individuare pratiche concrete che ci permettano di superare questo ordine sociale fondato sulla figura terrificante dell’individuo triste, rassegnato e standardizzato.

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