di Rock Reynolds
Pensi che il mondo sia stato ribaltato da una pandemia terribile quanto inaspettata e, invece, dietro l’angolo c’è una guerra che ne manda in soffitta la preoccupazione. Pensi che i giovani abbiano smesso di far sentire la propria voce e una ragazzina svedese si fa testimone di una generazione e scuote le coscienze dei potenti. Pensi che sentimento e impegno sociale non abbiano più posto in un libro contemporaneo e sugli scaffali delle librerie giunge La scintilla necessaria (Mondadori, pagg 168, euro 17,50) di Chiara Tozzi, un bel romanzo che si ciba di emozioni individuali e collettive così come di valori eterni.
Nicola, un personaggio televisivo di successo, non ha mai realmente finito di struggersi per Sara, l’amore della sua vita, che un giorno misteriosamente ha lasciato lui e il suo mondo, sparendo misteriosamente nel nulla. Man mano che si susseguono eventi epocali come l’attentato alle Torri Gemelle e un’ondata senza precedenti di attentati terroristici, l’elezione del primo presidente americano di colore e la diffusione di un virus oscuro in tutto il pianeta, Nicola cercherà nel legame con altre donne la forza e l’amore che solo Sara ha saputo dargli, tentando al tempo stesso di ritrovarla.
Chiara Tozzi ha l’entusiasmo di una ragazzina e la storia che racconta lo dice a chiare lettere. Le sue parole ne sono la conferma più autentica.
Qual è stata la “scintilla necessaria” che ha acceso il suo ultimo libro?
La sensazione che quella scintilla, identificabile nella significativa definizione del vocabolario Treccani (che per altro ho usato come porta d’ingresso al mio romanzo), si stesse perdendo; e che fosse necessario condividere un percorso a ritroso, risalendo almeno agli anni Sessanta; e da lì poi ripercorrere, assieme ad alcune fasi cruciali della storia di un uomo e di una donna che quegli anni hanno vissuto, la storia collettiva. Non voglio dire con questo che oggi quella scintilla sia spenta: tutt’altro.
Ma sono mutate le modalità con cui far scoccare quella possibilità vitale. Ed è mutato enormemente il modo per tenerne in vita il potenziale dinamico, propulsivo, e affettivo. Da lì la genesi di questo romanzo, concepito tanti anni fa, alla fine dello scorso millennio. Fu proprio in quella vigilia di un passaggio epocale, che avvertii la necessità di prendere e dare tempo a uno spazio di riflessione.
E da lì nacque l’immaginazione, il progetto di un viaggio romanzato che scompaginasse la linearità cronologica, procedendo in modo sussultorio fra il passato, il presente e un possibile futuro, veicolato da un’affettività potente, capace di sfidare il buon senso e la razionalità. Senza la scintilla necessaria, l’affettività si affievolisce, si raffredda e si piega alle tentazioni della convenienza e dell’opportunismo. In questo senso, Nicola e Sara rappresentano i versanti opposti di questi due modi di vivere l’affettività.
Da psicanalista junghiana, le è mai capitato di sfruttare storie apprese nella sua professione e di trasformarle in una veicolo narrativo?
Non è accaduto mai e mai accadrà. La professione di psicanalista arriva nel mio caso, cronologicamente parlando, dopo quella di scrittrice. Inizialmente ero un po’ preoccupata riguardo alla possibilità di far convivere le due professioni. Sono per questo estremamente grata a due miei didatti, a cui espressi questo dilemma all’inizio del training per diventare analista. Entrambi furono estremamente netti nell’affermare che avrei dovuto e potuto tenere assieme questi due ambiti, che avrei scoperto poi essere così significativamente collegati e indispensabili l’uno all’altro.
Ma se fu incoraggiante verificare che le mie due professioni potevano convivere, mi fu altrettanto chiaro da subito che non poteva e doveva esserci alcuna confusione fra le storie dei pazienti e quelle da me narrate. Lo spazio in cui vengono accolte le storie dei pazienti è sacro. Ciò che viene raccontato lì non può in alcun modo essere esportato altrove. Né provo fatica o difficoltà a mantenere distinti gli ambiti: anzi, è un’ottima ginnastica per la psiche osservare e accogliere le due narrazioni, mantenendole però ben distinte.
Certamente la mia speranza è che ciò che narro, per quanto parta da un’esperienza vissuta direttamente o indirettamente, possa avere una valenza e un respiro collettivo e che chiunque possa identificarsi e percepirne il contenuto come familiare. Ma ogni storia narrata nei miei racconti e romanzi è esclusivamente frutto delle esperienze di vita personale.
A un certo punto un suo personaggio dice, “Vivevamo in un periodo speciale”. Perché gli anni Sessanta restano per molti un periodo speciale?
In realtà il periodo riferito dal personaggio in questione, ovvero Sara, è a cavallo fra il ‘68 e la prima parte degli anni Settanta, in cui lei e Nicola sono liceali. Nel romanzo i Sessanta sono anni di silenziosa trasformazione, generatori di una scintilla capace di accendere un movimento – nel ’68 – inizialmente costruttivo e creativo. In quell’accensione iniziale l’utopia e gli ideali di cambiamento, libertà e giustizia paiono concretizzarsi e incarnarsi nella condivisione di eventi, progetti e attivismo. Ed è vivendo tutto questo che Sara dice a Nicola, “Ma ti rendi conto della fortuna? Viviamo in un periodo speciale! E la cosa più fantastica è che lo studio collega tutto: passato, presente, impegni, passione, progetti, teatro, cinema…”.
Sara a un certo punto dice, “Ma tu, da che parte stai!”. I giovani da che parte stanno? C’è ancora un impegno sociopolitico nella coscienza dei giovani di oggi?
Certo che sì! Ma è un impegno vissuto in modo assolutamente diverso da quello di chi era giovane nel ‘68. Allora l’impegno politico era più riferibile ai partiti, quelli di Destra e di Sinistra. Esisteva una linea di demarcazione netta, data da principi, obiettivi e perfino condotta etica estremamente differenziati. Oggi i principi, gli obiettivi e la condotta etica sono molto più confusi. Così come allora esisteva una precisa distinzione fra adulti e giovani, dal punto di vista del comportamento, del costume e della mentalità.
I millennials e la cosiddetta generazione zeta sono nati e cresciuti in un mondo gravato dal terrorismo, un terrorismo indefinibile nella localizzazione e nella provenienza politica. E hanno avuto a che fare con genitori assai affini a loro per comportamento, costume e mentalità. Questa indifferenziazione non ha aiutato e non aiuta chi è giovane a mettere a fuoco la propria identità così come il proprio modo di relazionarsi al mondo esterno. A mio parere chi è giovane adesso fa molta più fatica di quanto ne facessero Nicola e Sara nel ‘68 e negli anni Settanta.
Ciò, paradossalmente, rende i giovani di oggi molto più maturi di quelli della generazione di Nicola e Sara: perché debbono districarsi da soli, senza l’aiuto degli adulti, che essi percepiscono – a ragion veduta – fragili e confusi come loro. E perché debbono identificare con le proprie forze e capacità di orientamento la direzione verso cui volgersi. Chi è giovane oggi si trova a fare i conti con questioni diciamo così “trasversali”, come il cambiamento climatico, la difesa dei diritti umani, il rispetto per l’identità di genere, per le diverse provenienze etniche e professioni religiose.
A chi è giovane oggi importano più i contenuti che non identificarsi in un partito politico. In questo, i giovani assomigliano più a Sara che a Nicola. Come Sara, non sono etichettabili. Si spostano. Viaggiano. E fanno della loro fatica e sofferenza solitaria, una virtù.
Nel tira e molla tra solidarietà e indifferenza, oggi cosa prevale?
Tutto dipende dalla capacità di coltivare, custodire e mantenere viva la scintilla della condivisione, dell’ascolto, dell’empatia, della comprensione. C’è una grande differenza fra essere animati da un fuoco o da una scintilla: il fuoco induce a reagire emotivamente, divampa e brucia la capacità di riflessione. La scintilla è un impulso vitale e vivificante. Chi si fa guerra – e non parlo solo della guerra con le armi, ma anche di quella che riguarda la modalità di comunicazione e di relazione – ha perso la scintilla necessaria, come Nicola, che vive belligerando e scopre di aver perso Sara.
Il suo romanzo sembra fatto apposta per una trasposizione cinematografica. È vero che la narrativa contemporanea non può prescindere dalla lezione del cinema?
La narrativa, in qualsiasi tempo, non va a lezione. Certamente esistono modelli, scuole e insegnamenti che possono risultare utili, esattamente come avere nello zaino una bussola, acqua e cibo possono essere di aiuto durante il viaggio. Ma narrare è una esplorazione originale: il percorso e il passo non possono essere dettati dall’esterno, debbono corrispondere alla propria indole e al proprio irripetibile modo di essere. Solo così si può raggiungere qualcosa di nuovo e significativo.
Cita Scola e Leone, tra gli altri. Qual è la magia del cinema per lei?
Le immagini. Il cinema ci parla attraverso le immagini, proprio come i nostri sogni. E se chi fa cinema ha talento, è capace di coniugare le immagini individuali a quelle collettive, costruendo una narrazione simbolica, profonda, che potrebbe fare anche a meno delle parole. In base a questa magia, chiunque – qualunque lingua parli e da qualsiasi cultura provenga – può essere raggiunto, emozionato e catturato da ciò che vogliamo trasmettere.