"Chi non è mai stato perseguitato non è ebreo": Gaia Servadio racconta le storie dei Levi e dei Foà
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"Chi non è mai stato perseguitato non è ebreo": Gaia Servadio racconta le storie dei Levi e dei Foà

Giudei, il romanzo della scrittrice scomparsa narra le vicende di due famiglie lungo tutto un secolo; due famiglie ebree diverse tra loro

"Chi non è mai stato perseguitato non è ebreo": Gaia Servadio racconta le storie dei Levi e dei Foà
Giudei, il romanzo di Gaia Servadio
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22 Gennaio 2022 - 16.47


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di Antonio Salvati

In prossimità della prossima Giornata della Memoria – in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto, del nazismo e del fascismo – che si celebra ogni anno il 27 gennaio, è assai utile leggere l’ultimo volume di Gaia Servadio, Giudei (Bompiani 2021, pp. 352, € 19). È emblematico il titolo dell’ultimo romanzo della Servadio – recentemente scomparsa la scorsa estate, pochi mesi dopo l’uscita del libro – nonché significativa è la citazione tratta dal Talmud, esergo del volume: «Chi non è mai stato perseguitato non è ebreo».

Il volume narra le vicende di due famiglie lungo tutto un secolo; due famiglie ebree diverse tra loro: i Levi, marchigiani, aperti alla cultura e alla speranza, e i Foà, torinesi, più convenzionali e filosabaudi (notevole era la gratitudine ebraica ai Savoia, che avevano concesso i diritti civili agli ebrei fin dal 1848). Due famiglie profondamente italiane e ebraiche (seppur non particolarmente osservanti) che, con l’introduzione delle Leggi razziali, diventano “razza” nemica, senza lavoro, spogliate dalla loro dignità oltre che dalla speranza. E in certi casi spogliate anche dalla loro vita.

È necessario ricordare che – come più volte sottolineato da Renzo De Felice ed Emilio Gentile – il razzismo non era estraneo alla cultura politica fascista, che aveva manifestato fin dalle origini una speciale attenzione per la “difesa della sanità della stirpe” nell’ambito di un generale progetto di una rivoluzione antropologica per rigenerare il carattere degli italiani, per creare una nuova razza di dominatori e di conquistatori. Invece l’antisemitismo non era stato fino al 1938 una componente dell’ideologia fascista, anche se vi erano fascisti antisemiti, come vi erano ebrei fra i primi fascisti, fra i militanti del Pnf, e fra la classe politica e intellettuale del regime. All’inizio degli anni Trenta, Mussolini aveva pubblicamente disprezzato le teorie razziste e l’antisemitismo. Tuttavia, con l’intensificazione della politica razzista, anche l’atteggiamento verso l’antisemitismo cominciò a mutare, complice anche l’alleanza con la Germania nazista. Mussolini era convinto che l’ebraismo internazionale fosse parte attiva dell’antifascismo. Ma, soprattutto, fu mosso dalla sua volontà di accelerare i tempi di attuazione dell’esperimento totalitario per creare una razza italiana etnicamente omogenea. La legislazione antiebraica veniva così a inserirsi nel razzismo fascista come una scelta del tutto coerente, per motivi ideologici e politici, con la logica totalitaria del regime. Dal 1938, l’Italia divenne ufficialmente uno Stato antisemita: gli ebrei italiani, circa 50 mila, furono discriminati e messi al bando dalle istituzioni statali, dalla scuola, dalla vita pubblica. Anche se l’antisemitismo fascista non produsse i risultati più orridi dell’antisemitismo nazista, la discriminazione fu comunque una premessa per una più spietata persecuzione, quale fu messa in pratica più tardi nella Repubblica sociale.

La storia di questa saga familiare inizia nel febbraio del 1903. Zaccaria e Samuele Levi, cugini e amici, accomunati dalla medesima passione per la musica lirica, erano diversi l’uno dall’altro. Il loro idolo si chiama Giacomo Puccini. Lo incontrano in una circostanza infelice, soccorrendolo dopo che l’Isotta Fraschini del musicista si è ribaltata durante un’allegra fuga con l’amante di turno. «La musica ha uno spazio importante nel romanzo. I nuovi borghesi, i benpensanti – racconta l’autrice – disprezzavano la popolarità della lirica che in Italia era diventata la voce del popolo mentre in Germania, con Wagner, era la voce della borghesia». La musica, grande protagonista dell’anima ebraica, «è quella sinfonica, si sorprese a pensare Zaccaria, musica da camera, non l’opera lirica. La musica sinfonica è astratta mentre la lirica è figurativa; il cattolicesimo appartiene al figurativo e l’astrattismo è ebraico». Il romanzo assomiglia più a una cronaca che spazia dalla musica, con la presenza di personaggi quali Puccini e Toscanini, alla politica e all’economia (come Enrico Mattei e Olivetti), che non a una storia familiare, con i Levi e i Foà che, loro malgrado, rimangono ai margini della storia benché ne siano i protagonisti.

Un romanzo per tanti versi difficile da seguire in quanto ricco di personaggi dalle diverse sfaccettature, che assisteranno con occhi sgomenti e increduli alla discriminazione, alla persecuzione, giacché «per noi ebrei si preparava la caccia all’uomo»: Zia Ester e il soprano Drusilla, la casa delle Torrette col suo giardino, la piccola Giovanna e la sua mamma putativa Sara, l’artistico Elia, Miriam che amava i libri, l’affettuosa Kate e il suo Cielo; una guerra e poi l’altra, e in mezzo le leggi razziali, nuove famiglie, nuovi bambini, il fronte, la fuga, le perdite. Per poi. A guerra finita, con partenze e diaspore, tradimenti e vendette, e mancanza di vendetta; coraggio e viltà ma tutti accomunati da un nuovo sentimento: quello di sentirsi improvvisamente diversi e non più accettati. Amare le considerazioni dell’autrice: Stanare il Male: pensavo alla consuetudine con il Male, che dopo vent’anni e più di fascismo aveva reso accettabile l’inaccettabile. La gente era abituata al Male, il Male era un modo di vivere, e gli italiani erano bravi a raccontarla e a raccontarsela: nessun italiano era stato mai d’accordo con l’assassinio di Matteotti, con lo sterminio degli ebrei, quella era una cosa tedesca, anzi, nazista, gli italiani non c’entravano. L’Italia sarebbe andata avanti sulla strada del fascismo, con il corporativismo violento; (…) Un nemico ci doveva pur essere per costruire l’Italia democristiana, e il nemico era il Partito comunista, eravamo noi. Se non si potevano più sfruttare gli ebrei come nemici, anche perché ne erano rimasti davvero pochi, tanto valeva inventare il pericolo rosso».

In merito agli effetti devastanti della Shoah, una ricerca realizzata dall’équipe della dottoressa Rachel Yehuda all’Icahn School of Medicine del Mount Sinai Hospital a Manhattan, New York, e pubblicata sulla rivista Biological Psychiatry nel 2015, ha rivelato che i discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto mostrano alterazioni del loro Dna che risalgono al momento della Shoah. Ovvero le donne ebree hanno trasmesso il trauma alle generazioni future, come un marchio di terrore nel materiale genetico.

Il bel romanzo della Servadio ci mostra quanto abbiamo ancora bisogno della letteratura e della sua modalità con cui narra le vicende storiche. La letteratura e il romanzo storico possono aiutarci. Nella letteratura, specialmente nelle sue opere capitali, convergono tutti i grandi problemi suscitati nella mente umana dalla condizione mortale; e tutte le inquietudini dell’animo e le aspirazioni relative e supreme. Una cultura letteraria non posticcia, ma accurata e meditata, pone al centro l’esperienza umana e giova a costituire una mentalità comprensiva nei riguardi di tutti gli aspetti, dalla virtù all’abiezione, della persona dell’uomo[1]. Certo, la storiografia e il romanzo appartengono a due dimensioni diverse. Tuttavia, se può apparire eccessivo affermare che il romanzo arriva là dove non arriva la storia, non siamo lontani dal vero nel sostenere che la narrazione storica sarebbe più povera senza il romanzo e che tanti grandi romanzieri – anche inconsapevolmente – hanno saputo gettare uno sguardo totale sulla realtà, sul mondo. Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente l’esperienza umana, ha osservato Cvetan Todorov. La letteratura è una indispensabile risorsa di senso per l’umanità del nostro tempo. Anche per la narrazione storica rivolta ai nostri studenti. È un grande telescopio puntato sulla vita, direbbe il cardinale José Tolentino De Mendonça, «uno strumento prodigioso di lettura dell’esperienza individuale e collettiva, storica e interiore, nella sua dimensione particolare come in quella universale».

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