Quando anche il privato è contro la musica
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Quando anche il privato è contro la musica

Storia dell'eclissi di Radio Classica, emittente milanese a rischio chiusura o ridimensionamento. Forse più a causa di una miopia aziendale che della crisi economica.

Quando anche il privato è contro la musica
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Federico Biscione Modifica articolo

11 Novembre 2012 - 20.32


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di Federico Biscione

L’antefatto. Tra il 2004 e il 2007 un piccolo gruppo di giovani musicisti/redattori/conduttori radiofonici viene “assunto” dalla milanese Class Editori per il lancio di Radioclassica, emittente dedicata alla musica classica (Class Editori pubblica il quotidiano Milano Finanza, ma è attivo anche nel campo del lifestyle e dei beni di lusso, anche in tv). Nello spazio di pochi anni la radio acquista un suo piccolo particolare prestigio nel mondo della musica classica, diventando uno dei punti di riferimento per molti operatori e appassionati del settore in tutta Italia: questa emittente diffonde a tutt’oggi un palinsesto assai articolato comprendente, oltre la musica registrata, importanti approfondimenti in diretta, che vertono su ricerca, novità, attualità e divulgazione; spesso partecipano alle trasmissioni personalità eminenti del campo.

Le virgolette usate per la parola “assunti” significano: questo personale, assai qualificato, veniva assunto sempre con contratti (annuali o semestrali) di consulenza a partita IVA (ma pare che il lavoro si sia svolto molto spesso secondo le modalità tipiche del lavoro dipendente). E questo fino alla fine dello scorso anno, dopodiché i redattori hanno continuato per lo più a lavorare col contratto scaduto e senza uno nuovo.

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Mercoledì 31 ottobre scorso la dirigenza dell’Azienza ha comunicato ad alcuni redattori che il prossimo 15 novembre avverrano le ultime trasmissioni in diretta da studio, dopodiché tutti a casa. E non è stato nemmeno un vero licenziamento, vista la vacanza del contratto (quando si dice il caso).

Giovedì 2 novembre reazioni immediate: la prima si è avuta sui social network, dove il gruppo “Salviamo Radio Classica” di Facebook ha raggiunto in pochissimo il migliaio di adesioni; a seguire compaiono articoli in sostegno della Radio sulle riviste online Il Corriere musicale ed Economia Web; più recentemente anche l’Opera e La Repubblica hanno dato spazio all’argomento, oltre a diversi blog.

Venerdì 2 novembre Milano Finanza, giornale dello stesso editore della radio (il quale probabilmente non si aspettava le proteste), pubblica un articolo un po’ frettoloso intitolato “Radio Classica cresce con più grande musica” (sic) dove si dichiara che “Radio Classica ha in elaborazione un nuovo palinsesto, che tiene conto anche dei risultati di una ricerca fra gli ascoltatori. Nel nuovo palinsesto vi sarà più grande musica e un rinnovamento dei programmi e delle rubriche”. Non si ha tuttavia al momento alcuna traccia di questa ricerca effettuata tra gli ascoltatori (che sono gli stessi che protestano su FB) né si apprende qualsivoglia altra notizia riguardante i contenuti dei nuovi palinsesti.

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Ma a che serviva questa radio? L’Editore non sembra aver mai esperito la possibilità un ritorno economico attraverso la radio: non risulta un’iscrizione Audiradio, che avrebbe reso possibile una quantificazione monetaria degli spazi pubblicitari (Radio Classica non ha mai avuto spazi pubblicitari).

D’altronde se fosse stata solo una questione di immagine, si potrebbe supporre che Class Editori abbia accomunato la musica classica a uno dei tanti beni di lusso che sono oggetto di tante sue pubblicazioni; quindi smantella la redazione in quattro e quattr’otto secondo la logica dei rami secchi, accorgendosi solo dal clamore delle proteste della quantità di pubblico che la radio intercetta(va).

La questione rimane aperta.

Questa piccola triste storia milanese, al di là del fatto che coinvolge un numero limitato di persone direttamente (una manciata di disoccupati in più che non fanno evidentemente notizia) e indirettamente (qualche centinaio di ascoltatori di musica classica, chi se li fila?), è emblematica della situazione attuale del Paese: troviamo professionalità calpestate e usate finché utili al un’azienda, poi gettate via anche attraverso pratiche contrattuali spericolate, in un ambito generale di opacità di scelte aziendali che appaiono ispirate a quello spregio per le attività culturali perseguito da molti anni nella nostra società, anche a livello istituzionale.

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E invece un articolo di Pier Luigi Sacco comparso il 2 settembre scorso sul Sole 24 Ore (lo potete leggere qui) sostiene con argomenti molto convincenti che una possibile via d’uscita dalla crisi attuale, o almeno un considerevole aiuto, proverrebbe dagli investimenti nella cultura e nelle attività connesse: io ci credo.

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