Iran, Armita non ce l'ha fatta: sedici anni, un assassinio di Stato

Amita è morta. Morte cerebrale. Amita è stata vittima di un regime sanguinario, misogino, nemico delle donne.  "Il cervello di Armita in questo momento non funziona e non c'è speranza per la sua guarigione"

Iran, Armita non ce l'ha fatta: sedici anni, un assassinio di Stato
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25 Ottobre 2023 - 00.03


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Amita è morta. Morte cerebrale. Amita è stata vittima di un regime sanguinario, misogino, nemico delle donne.     “Il cervello di Armita in questo momento non funziona e non c’è speranza per la sua guarigione”, ha affermato sui social media il padre di Armita Garavand, la 16enne ricoverata in coma dall’1 ottobre dopo avere subito un trauma cranico nella metropolitana di Teheran, dove avrebbe sbattuto la testa durante una lite con una sorvegliante perché non portava il velo.

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 Il governo di Teheran aveva negato questa versione, dopo che il suo caso aveva suscitato indignazione, affermando che la giovane era svenuta a causa di un calo di pressione.

I media avevano riportato ieri che la morte cerebrale di Armita pareva ormai certa. 

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 Assassinio di Stato

Scrive A.Ma. su Avvenire: “Il padre di Armita Geravand ha confermato la notizia che si sperava non arrivasse mai: la 16enne è in coma irreversibile, non c’è nessuna speranza che possa riprendersi. E così la studentessa di Teheran, aggredita il primo ottobre da una guardia della metropolita per essersi tolta il velo, è un’altra vittima delle repressione delle libertà in Iran. Non sappiamo se diventerà un simbolo così come già un anno fa la 22enne curda Mahsa Amini, morta mentre si trovava sotto la custodia delle forze di sicurezza, agli arresti perché portava male il velo. «Il cervello di Armita in questo momento non funziona e non c’è speranza per la sua guarigione», ha detto il padre.

La vicenda di Armita è ugualmente crudele: alla madre Shahin Ahmadi era stato impedito di entrare all’ospedale Fajr di Teheran per vedere la figlia e, dopo le sue proteste, era stata trattenuta in custodia. I medici avevano informato la famiglia che le condizioni della ragazza erano disperate e nelle scorse settimane si era diffusa la notizia che il regime dell’ayotallah Ali Khamenei stesse facendo di tutto per tenerla in vita. Per paura, ovviamente: il movimento “Donna vita libertà” ha preso forza dopo la morte di Mahsa e il regime fatica a mantenere il controllo delle piazze. 

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Come nel caso di Mahsa, l’Iran nega che Armita sia stata aggredita: sarebbe invece caduta in seguito a un malore, sbattendo la testa violentemente. Ma i video inchiodano il regime alle proprie responsabilità: c’è stata una lite con una sorvegliante perché non portava il velo e nella collutazione la giovane ha subito un trauma cranico che ora l’ha portata alla morte cerebrale.

Ieri due giornalisti, incarcerati per aver seguito la vicenda della morte di Mahsa Amini, sono stati condannati rispettivamente a sei e sette anni di prigione. Si tratta di Elaheh Mohammadi – che dovrà scontare cinque anni di reclusione per complotto contro la sicurezza del Paese più un anno per propaganda contro la Repubblica islamica – e del fotoreporter Niloufar Hamedi. Entrambi sono stati anche considerati colpevoli di aver collaborato con gli Stati Uniti.

Teheran non può permettersi di dover affrontare un’altra ondata di manifestazioni, specie in un momento in cui è alto il rischio di un coinvolgimento nel conflitto che è nuovamente esploso tra Israele e Palestina e che lo vede come attore non disinteressato. Il regime liberticida non è mai uscito dai radar della comunità internazionale, così come chi lo combatte. Lo dimostrano il premio Sacharov 2023 per la libertà di pensiero conferito a Mahsa Amini e al movimento di protesta che ne è scaturito, e il prestigioso Nobel per la Pace vinto il 6 ottobre dall’attivista iraniana Narges Mohammadi, arrestata 13 volte, condannata cinque e destinata a scontare un totale di 31 anni di carcere per le sue lotte in favore delle donne del Paese e non solo. Una scelta che Teheran aveva definito “faziosa e politica”.

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Nell’ultimo anno la violenza in Iran non si è fermata.

Amnesty International, in un report di agosto 2023, segnalava che le autorità avevano ucciso “centinaia di manifestanti” e ne avevano “arrestati migliaia, minorenni compresi”, mentre “innumerevoli altri” erano stati sottoposti “a torture, inclusa la violenza sessuale, durante la detenzione: alcuni di loro sono stati messi a morte al termine di processi gravemente irregolari”. Ma nonostante le ripetute intimidazioni, le esecuzioni e il costante deterioramento dei diritti, nel Paese sciita ancora molte persone protestano a gran voce e il grido “Donna vita libertà” continua a risuonare per le strade di tutto il mondo.

Il coraggio di Samira

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Emerge dalla bella intervista di Alessia Arcolaci per Vanity Fair: 

“Samira è un’insegnante iraniana. Da alcuni anni è entrata nel gruppo Unità della Resistenza e durante le prime manifestazioni a cui ha partecipato per protestare contro i salari bassi degli insegnanti è stata arrestata. Ha trascorso diversi mesi in carcere, dove ha subito maltrattamenti e ha visto da vicino cosa succede a chi si oppone al regime. Samira ha deciso di raccontare quello che ha vissuto per denunciare il regime in cui vive ma pesa ogni parola perché ha paura di essere riconosciuta e riportata in carcere.

Negli ultimi anni, Samira non ha mai smesso di scendere in piazza e urlare con forza il suo desiderio di un Iran libero e dove le donne possano godere degli stessi diritti degli uomini. Era in piazza quando venne uccisa Mahsa Jina Amini il 16 settembre 2022 (in questi giorni sono state condannate a 13 e 12 anni di carcere le giornaliste iraniane Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi che seguirono il caso) ed è pronta a scendere in piazza per Armita Gerawand,  16 anni, ricoverata all’ospedale Fajr di Teheran dal 1 ottobre. È arrivata in ospedale priva di conoscenza dopo uno scontro con agenti nella metropolitana di Teheran, che la accusavano di aver violato la legge sull’hijab.

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Armita Garawand è morta?

«Nessuno sa veramente del suo stato attuale. Circolano voci secondo cui il cervello di Armita ha smesso di funzionare e viene mantenuto in vita per evitare le conseguenze dell’annuncio della sua morte. (Questa informazione sarebbe stata comunicata in queste ore anche dall’agenzia Borna, legata al ministero della gioventù e dello sport, ndr) La massiccia presenza di forze di sicurezza e agenti dei servizi segreti al Fajr Hospital indica un significativo coinvolgimento del governo in questo caso. Il fatto che ai genitori di Armita sia negato l’accesso per vederla solleva preoccupazioni sul suo benessere e sul controllo sulle sue condizioni mediche. Inoltre, un giornalista che ha cercato di indagare sulla situazione è stato arrestato e gli studenti della scuola superiore di Armita sono stati intimiditi e messi in guardia dal parlare ai media. Queste azioni impediscono ai genitori di conoscere la verità e alimentano il sospetto che le autorità potrebbero scegliere di non rivelare la sua morte se dovesse verificarsi.
Nel frattempo, la Polizia dell’Hijab continua con le sue misure repressive contro le ragazze e le donne in tutto il Paese».

Perché sei stata arrestata?

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«Sono stato arrestata durante le proteste a Shiraz, nel sud dell’Iran, mentre protestavo insieme agli insegnanti per i salari bassi e gli aumenti in ritardo. Sono stato accusata di disturbo dell’ordine pubblico. Per fortuna non si sono accorti che facevo parte delle Unità della Resistenza».

Cosa ti è successo in prigione?

«Sono stata interrogata per diverse settimane in uno dei centri di detenzione del Ministero dell’Intelligence. Non conosco il luogo, ma era nelle vicinanze di Shiraz. Sono stata picchiato da due investigatori e sono stata minacciata di subire abusi più volte. Ogni volta che mi portavano dalla persona incaricata del mio caso, era un incubo. Non posso fornire ulteriori dettagli, perché potrebbero mettere a repentaglio la mia identità. Sono stata poi trasferita nel reparto femminile del carcere di Adel Abad, che comprende sette stanze per minorenni, furti, reati di droga, quarantena e crimini finanziari. All’arrivo, i prigionieri vengono portati nell’area per la quarantena. Il reparto minorile ospita persone sotto i 30 anni indipendentemente dalla natura dei loro crimini. Le camere hanno letti a tre piani, con una media di otto letti per camera. A causa delle limitazioni di spazio, circa 20 persone in ogni stanza dormivano sul pavimento, per un totale di oltre 50 persone in una stanza. Il reparto minorile ospitava anche madri con bambini. Nel nostro reparto c’erano due bagni, due WC e due lavandini per 48 persone nel reparto minorile. Ai nuovi prigionieri non era permesso sedersi accanto ai letti; dovevano sedersi al centro della stanza».

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Hai avuto paura?

«La situazione era così dura che si verificavano spesso casi di suicidio. Il carcere minorile ospitava persone di età inferiore ai 15 anni. In varie carceri ci sono state persone colpite fisicamente con tubi o cavi per estorcere confessioni. I prigionieri politici spesso rimanevano per brevi periodi in quarantena prima di essere trasferiti senza preavviso. In un caso, diverse ragazze del nostro gruppo sono rimaste in quarantena per alcuni giorni. Il loro “crimine” è stato scrivere graffiti contro il regime sui muri delle strade. Sono state trasferite in una località sconosciuta».

Perché hai scelto di entrare nel gruppo di resistenza iraniano?

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«Non solo per me, ma per tutti i giovani della mia età, soprattutto come donne, non c’è futuro in Iran. Solo una piccola percentuale della società, i parenti dei funzionari del regime e dell’IRGC, vivono una vita buona e piuttosto benestante. Molti di loro vivono all’estero utilizzando il denaro saccheggiato al Paese. Mentre la grande maggioranza del popolo iraniano vive in povertà. Peggio ancora è la repressione. Un gruppo d’élite di mullah risalenti al Medioevo governano il paese con il loro pugno di ferro. Ho perso molti dei miei amici durante la rivolta del 2019. Mi sono unita alle Unità di Resistenza quell’anno. Così ho imparato di più sulla loro visione per un Iran libero e democratico, il loro impegno per l’uguaglianza di genere e il ruolo delle donne nella leadership».

Com’era la tua vita prima della rivoluzione?

«Vivevo in una normale famiglia della classe media a Shiraz. Mi sono sempre scontrata con gli altri studenti di fronte alla polizia morale e agli agenti del regime all’università. Come atleta, per me era un sogno poter partecipare a tornei nazionali, ma ho potuto farlo su raccomandazione dei Basij (gli agenti paramilitari del regime), e sono stato squalificata, viste le mie precedenti disobbedienze a scuola».

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Come immagini il tuo futuro?

«Spero che venga il giorno in cui tutti gli iraniani vivranno una vita libera. Potranno decidere cosa pensare, quale governo avere. Sogno una repubblica basata sulla separazione tra religione e stato, e un Iran non nucleare, dove non ci sarà la pena di morte e le minoranze etniche e religiose avranno gli stessi diritti degli altri».

Per Armita, Mahsa, Samira. Per tutte le raazze, le donne che in Iran continuano a battersi per la libertà. Non solo dal velo ma da un regime oscurantista e criminale.

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