Di chiaro nell’attentato di sabato 10 ottobre ad Ankara al momento c’è solo la dinamica: due attentatori suicidi – imbottiti di tritolo, il cui effetto omicida è stato potenziato da biglie di metallo – che si sono fatti esplodere mentre stava per iniziare una manifestazione antigovernativa animata dal partito filocurdo HDP (Partito Democratico del Popolo). Neanche il bilancio della strage è definitivo, ma potrebbe superare le 100 vittime. Decine di feriti sono infatti ancora in rianimazione.
Gli esecutori materiali non sono stati ancora identificati, è molto probabile una loro appartenenza a ISIS o ad ambienti islamisti radicali interni, ma non è detto che esecutori materiali e ispiratori dell’attentato coincidano. Lascia infatti molto da pensare l’obiettivo scelto: non indiscriminato ma tutto politico, in piena campagna elettorale per le elezioni del primo novembre.
Insomma, la strategia dai tempi delle rivolte di Gezi Park, due anni fa, sembra ripetersi: scatenare ostilità e violenza contro il governo dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) e soprattutto contro il presidente Recep Tayyip Erdogan, approfittando delle fratture etniche, religiose e sociali – dagli alevi ai curdi – che caratterizzano il complesso mosaico turco. Anche in prossimità delle elezioni del 7 giugno il meccanismo è stato attivato, con un attentato a un comizio dell’HDP a Diyarbakır e con l’analogo attentato suicida di Suruc contro militanti di estrema sinistra politicamente vicini all’HDP.
Perché l’obiettivo è solo uno e sempre lo stesso? Si tratta di una vendetta trasversale dell’ISIS contro il movimento politico curdo, colpevole di sostenere il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e le milizie curde siriane che hanno sconfitto lo Stato Islamico a Kobane? O ci troviamo invece di fronte a una operazione di ingegneria politica, da imputare ad attori che conoscono alla perfezione la realtà politica turca e cercano di influenzarla? Dopotutto, il leader dell’HDP Selahattin Demirtas – che dall’attentato di Diyarbakir ha beneficiato in termini di voti – è stato velocissimo ad accusare governo e presidente per l’attentato e a improvvisare il giorno dopo un comizio in piena regola sul luogo dell’eccidio.
È anche evidente che ci sono responsabilità della polizia, l’attentato è avvenuto nel cuore della capitale turca, non all’interno dell’area della manifestazione, ma in una zona – davanti alla stazione ferroviaria – particolarmente sensibile. Però, quali vantaggi avrebbe un partito che ha basato i suoi successi elettorali sulla stabilità e la prosperità a creare invece caos e instabilità? Certo, l’ipotesi di complotto non è da escludere a priori: ma perché organizzarlo a favore dei propri avversari politici?
Inoltre, alla Turchia e al governo non mancano i nemici, interni ed esterni. Per i secondi, basta guardare alla Siria: il presidente siriano Bashar Assad e la Russia, senza trascurare l’Iran. I primi sono invece rappresentati soprattutto dal cosiddetto “Stato parallelo”: l’organizzazione del predicatore Fethullah Gulen, accusata di aver assunto posizioni rilevanti proprio all’interno della magistratura e della polizia, che contro l’AKP ed Erdogan ha scatenato un’offensiva senza esclusioni di colpi attraverso procure – con inchieste mirate – e stampa amica – con campagne violente di delegittimazione. Entrambi hanno interesse a provocare un’escalation della violenza in Turchia, così da rendere precarie le posizioni di Erdogan e del primo ministro Ahmet Davutoglu, con l’obiettivo di farli cadere affinché vengano sostituiti da personale politico più malleabile.
In ogni caso, per la Turchia si aprono scenari pericolosi e potenzialmente catastrofici . C’è infatti chi parla dell’attentato di Ankara come dell’11 settembre turco: ma dopo l’11 settembre i cittadini americani si sono trovati più uniti e investiti dalla solidarietà mondiale, mentre in Turchia le fratture socio-politiche rischiano di esplodere e al posto della solidarietà prevalgono complottismo e accuse.
(Giuseppe Mancini, Loookoutnews)
