Dove sia Gheddafi è dettaglio, dove finirà la Libia il cruccio

Mentre le cronache guerresche si ammosciano, soltanto un balbettio politico diplomatico su cosa si stia realmente preparando per la Libia. [Ennio Remondino]

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Ennio Remondino Modifica articolo

13 Settembre 2011 - 10.47


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Il rischio di vincere la guerra e perdere la pace. Accade come sempre in ogni guerra. Il racconto del dopo non fa ascolto in televisione e fa paura alla politica. “Abbiamo vinto”, forse, ma eravamo in tanti. Chi ha veramente vinto sul campo, quali fazioni o gruppi tribali hanno vinto più degli altri, e quanti e quali di loro sono amici nostri, e chi, e come, degli “alleati” in guerra, si prepara a fotterci nella pace? Verbo volutamente forte a sottolineare, per i benpensanti ingenui, che le guerre, le mene diplomatiche e politiche che le decidono, le conducono e le concludono (quando ci riescono) non sono, non possono essere cose per signorine di buona famiglia. Nella Libia di questi giorni meno che mai, ma anche nei corridoi ovattati delle nostre cancellerie. Mille domande, poche risposte.

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Il peso del contributo di sangue.
Chi ha vinto la battaglia di Tripoli? Primo quesito e risposta apparentemente facile che ne apre altre più complesse, formato matrioska. Non sono state le truppe disordinate del Comitato Nazionale Transitorio di Bengasi (CNT) a conquistare la capitale. Lo sostengono a buona ragione i gruppi tribali ed etnici che la battaglia di Tripoli hanno combattuto casa per casa. Ex lealisti passati con la rivolta, kabile sino a ieri incerte, cittadini esasperati dall’ostinazione del clan Gheddafi in una battaglia ormai persa. E poi il sangue versato a Ovest, a Zintan, o ad est, a Misurata. Città martiri, sangue da far pesare nella formazione del governo di unità nazionale, col riconoscimento unanime, al CNT, di aver saputo condurre e gestire la parte politica internazionale.

Il fantasma del generale Yunis. La partita politica interna resta dunque tutta da giocare, con una serie di incognite. Prima tra tutte quella delle componenti islamiche che hanno ormai una loro forte rappresentanza interna. Il leader storico di al-Qaida in Libia, Abdelhakim Belhadj, è divenuto governatore militare di Tripoli ed è il responsabile dell’organizzazione dell’esercito della “nuova Libia”. Poi le richieste per ora insoddisfatte di tipo etnico o tribale da mettere nel conto. Ma il punto di equilibrio, o di rottura, verrà dalla “verità” ufficiale sulla morte di Abdel Fattah Yunis, l’ex ministro dell’Interno di Gheddafi e generale comandante dei ribelli in Cirenaica. Prima di essere ammazzato da una fazione interna. Conti da saldare tra kabile o una mossa preventiva degli islamisti contro il laico Yunis?

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Troppe armi distribuite a casaccio.
Il governo provvisorio sulla questione Yunis per ora tergiversa. Ma il caos potenziale sul piano militare non è dato tanto dei rimanenti lealisti che sembrano proteggere la fuga di Gheddafi verso sud, nel deserto tra Tunisia e Algeria. A frantumare di fatto la “Libia liberata” sono proprio quelle realtà tribali che ancora non riconoscono il CNT e controllano frazioni di territorio imponendo la loro sicurezza. Manca insomma qualsiasi forma di unità militare reale e, quel che è peggio, le operazioni più o meno clandestine di fornitura di armi ai ribelli da parte dei paesi occidentali è avvenuta “a pioggia”. A casaccio, per dire meglio e chiaramente. E il territorio, oltre le isole dove ancora di combatte, è controllato da kabile spesso nemiche tra loro. Con i primi atti di criminalità comune.

Governo largo e pasticciato? Urgenza estrema, riconvertire la vita politica ed economica del Paese, e ciò dovrà accadere attraverso la scelta delle persone che segneranno il dopo Gheddafi. Due gli elementi essenziali ed, assieme, in contraddizione. Determinante la rappresentatività più vasta possibile della realtà politico-sociale (e rivoluzionaria, e tribale) della Libia che s’è ribellata e di quella che ha, alla fine, deciso che era impossibile continuare con l’isolamento imposto dal Rais. Controindicazione, la probabilità di un pastrocchio decisionale inestricabile. Sull’immediato futuro pesa anche la storia che ci ricorda come, prima della colonizzazione, la Libia nei confini a noi noti non sia mai stata Stato. Creatura coloniale prima e “gheddafiana” dopo. Oggi la rivoluzione vuole uno Stato come prezzo del sangue versato.

Finita la guerra libica, inizia quella internazionale. Sulla moralità della politica degli Stati attorno ai valori etici, umanitari e democratici, credo non esista più alcuna illusione. Guerre “umanitarie” a orologeria di convenienza. Anche questa. La Francia, primo attore nei bombardamenti, intende fortemente incassare. A scapito dell’Italia, se parliamo di gas e petrolio, e sono da prevedere segretissime operazioni di “discrising”, che, nel linguaggio delle spie si traduce in “sputtanamento”. Gli inglesi, golosi e iper rappresentati a livello internazionale si muoveranno con l’Onu a tutela loro e dei cugini atlantici. Anche i russi sono arrivati. Senza proporre socialismo hanno il petro-rublo in grado di fare penetrazione economica sul modello occidentale. La Cina s’è a sua volta affacciata.

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Il mondo arabo dove crediamo si fermi?
Una delle stupide illusioni di noi occidentali è che ciò che è già accaduto e si prepara nel resto del mondo arabo sia merito dei nostri modelli avanzati di democrazia. Nessuno dà, per incultura, o vuoi, per ipocrisia o paura, fare i conti con i fatti. Ad esempio. Cominciare a ragionare su cosa rappresenti oggi il minuscolo emirato del Qatar e la sua potentissima televisione Al Jazeera. Cosa quello strumento comunicativo ha provocato in Tunisia, in Egitto, in Libia. Già ora cosa sta accadendo in Siria. Lo strumento tecnico, compreso internet, è un prodotto occidentale, ma il suo uso sul campo, vi assicuro, è intelligenza e progetto tutto loro. Globalizzazione economica e informativa scritta in arabo. O in turco. O in yemenita. Con la mina Siria che imporrebbe anche i caratteri dell’alfabeto ebraico.

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