Sono trascorsi quindici anni da quando nel profondo interno della Tunisia, Mohamed Buoazizi, si trasformò in una torcia umana. Era il 17 dicembre 2010 e si dette fuoco perché esasperato dalle vessazioni di una polizia corrotta. Fu la scintilla per quella che poi verrà chiamata la Primavera Araba, un miscuglio di energie e disperazione giovanile, straordinariamente condivise in un progetto creativo e spontaneo, che dette origine a proteste e poi rivoluzioni che hanno coinvolto e sconvolto il Nordafrica e il Medio Oriente.
Quindici anni forse non sono ancora sufficienti per dare un significato definitivo al gesto eroico di Mohamed. Del resto per la precedente “primavera” politica simboleggiata anch’essa da una torcia umana, Jan Palach, ci sono voluti più di dieci anni per capire il vero senso del sacrificio del giovane cecoslovacco del Sessantotto praghese. È stato lo sgretolamento dell’Unione Sovietica, più di vent’anni dopo, a dimostrare come il gesto di piazza Venceslao fosse stato una parte del meccanismo che ha impresso velocizzazione al processo che ha poi portato alla caduta della cortina di ferro.
E proprio per questo, di certo, ci vorranno ancora anni per capire i veri effetti della Primavera Araba, la prima rivoluzione che si è strutturata spontaneamente sui social media grazie alla creatività condivisa dei giovani arabi. Una rivoluzione sbocciata sotto lo sguardo sorpreso e quasi incredulo degli europei che hanno sempre avuto difficoltà a guardare al continente al Sud senza appetiti smodati e occhi darwiniani.
Dalla rivolta del 17 dicembre 2010 la Tunisia è stata per anni l’unico caso di tutti i paesi coinvolti nella Primavera Araba, a mantenere una transizione democratica parziale. Dopo il 2020 però la svolta è stata netta: il 25 luglio 2021 il presidente Kais Saïed ha sospeso il parlamento e richiamato pieni poteri, iniziando a governare via decreti. Quella mossa, presentata come risposta alla crisi politica e alla corruzione, ha segnato il capovolgimento dell’esperimento democratico tunisino e l’inizio di una fase di concentrazione del potere presidenziale.
Nel 2022 Saïed ha promosso e sostenuto un referendum su una nuova Costituzione che rafforza i poteri del presidente e riduce il ruolo di controlli e contrappesi; il voto è stato largamente boicottato dall’opposizione, anche se le autorità hanno registrato una vittoria schiacciante per il “sì”. Quel passaggio ha sancito istituzionalmente la trasformazione del sistema politico verso un assetto presidenziale molto più forte, mentre la crisi economica fatta di inflazione, calo dei servizi e difficoltà fiscali hanno spostato il focus pubblico dalle speranze di riforma alla fragilità macroeconomica, il vero tema.
Negli ultimi anni la dinamica politica della Tunisia si è polarizzata: da un lato manifestazioni di opposizione e richieste di ritorno alla democrazia, dall’altro mobilitazioni filogovernative e un uso sempre più frequente della magistratura e della repressione per neutralizzare i dissidenti con condanne esemplari a leader dell’opposizione.
In questa dinamica si è inserita anche l’Italia con il “Piano Mattei”. Al di là dell’enfasi, l’Italia punta a rafforzare il governo di Saied come interlocutore “stabile” per il controllo dei flussi migratori, anche a costo di sorvolare sulla deriva autoritaria del Paese. I progetti economici e di cooperazione restano in larga parte poco definiti, mentre il rischio è che il piano finisca per legittimare un potere sempre più concentrato, trasformando lo sviluppo in una contropartita politica più che in un investimento di lungo periodo per la società tunisina.
Una cosa sono i ricordi, come si vede, altra cosa è la realtà. La Tunisia, insomma, è passata dall’essere l’“esempio” dell’onda araba a un caso in cui la transizione appare oggi fortemente compromessa.
