All’Arena Repubblica Robinson della fiera Più libri più liberi, Nichi Vendola apre il suo intervento con una frase che suona come un vero programma politico e culturale: “Le parole, e la loro cura, sono uno strumento per la vita”.
Un’espressione che introduce immediatamente il cuore della sua riflessione.
Vendola rievoca le masse contadine tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, prive degli strumenti linguistici per definire la propria condizione e, di conseguenza, per cambiarla. «A non possedere le parole si resta nudi di fronte alla storia», afferma dialogando con il giornalista Carmelo Lopapa. P
er l’ex governatore, scrivere e coltivare la poesia rappresenta una forma di riparo dal degrado del mondo, un argine contro l’imbarbarimento. Ma, oggi, osserva, “il vocabolario della ferocia domina le élite globali” e si assiste a quello che definisce “genocidio delle parole”: la scomparsa di termini capaci di preservare la capacità di distinguere, comprendere, riconoscere l’umano.
Senza questa lacerazione del linguaggio, dice, “non avremmo avuto un grottesco dibattito su Gaza”, dove “è in atto uno sterminio, e c’è voluta una fatica terribile per dirlo e chiamare le cose con il loro nome”. E richiama il monito universale nato dopo la Shoah: “Mai più un uomo privato della sua dignità. Lo abbiamo detto per gli ebrei, ma anche per rom, sinti, cristiani, atei: per l’umanità intera”. Per questo definisce “una vergogna” la presenza del controverso stand Passaggio al Bosco. E riecheggia Pertini: “Il fascismo non è un’opinione, è un crimine”.
Il confronto si sposta poi su Sacro queer, pubblicato da Manni Editore, in cui Vendola esplora il nesso tra spiritualità e diversità. “Per molti è un pugno nello stomaco accostare queste parole, eppure alla presentazione c’erano molte suore”, racconta. E amplia il concetto: “Queer è un trans, un gay, ma anche chi è insolito, chi sfugge alle etichette”. Da credente, offre una lettura radicale: “tutti i personaggi chiave dell’Antico Testamento sono queer”, da Maria di Nazareth alla Maddalena, fino al Samaritano, “che nel mondo di Salvini sarebbe un trans, uno zingaro. Eppure è lui a mettere in scena il verbo della salvezza e della carità”.
Secondo Vendola, è questo lo scandalo evangelico che interroga il nostro tempo, “in cui sono tornate transfobia, misoginia, abilismo, suprematismo bianco”. Un’epoca nella quale, osserva, si è ribaltata la prospettiva sociale: “Un tempo riferendosi agli ultimi agli emarginati si diceva: ‘Il pietismo non basta, serve la giustizia sociale’, mentre oggi siamo dominati dall’empietà istituzionale”.
Parlando del suo libro, precisa che molte poesie “sono preghiere”, come Madonna di Cutro, nata dopo il naufragio in cui, dice, “si è deciso che cento persone potessero morire a pochi metri dalla costa”. In quel tratto di mare immagina una Madonna nera, “come quelle del Sud, come il volto di san Gennaro o di san Nicola”, simbolo di un’Italia mescolata e accogliente, in contrasto con “i buffoni coi rosari nei comizi”. Perché — ricorda — il Vangelo non prescrive odio: “ero straniero e mi avete accolto, non di usare il crocifisso come un revolver contro chi è diverso”.
E la sinistra? Vendola non si sottrae. “Che ci sia spazio o meno per un discorso di sinistra in questi tempi poco importa: bisogna battersi per migliorare la condizione umana, anche uscendo sconfitti”. La politica per lui resta un dono impegnativo: “è stata la cosa più bella della mia vita, pur nel dolore: passione significa patire insieme”.
Sulla possibilità di un suo ritorno in campo, sorride e conclude con una battuta intrisa di autobiografia e determinazione: “Con una gamba corro, con una sto fermo. Ma mi hanno insegnato che, anche ‘con le scarpe rotte bisogna andar’. Sono sempre a disposizione della gente”.
