«E adesso, pover’uomo?! È il titolo del romanzo del tedesco Hans Fallada, che però suona bene se rivolto a Pier Luigi Bersani. Ci eravamo illusi in tanti su di lui, anche molti fra quelli che continuano a sostenerlo.
Pensavamo che la sua bonomia, il suo buon senso, la sua lunga storia di militante e dirigente del movimento operaio e contadino emiliano fossero qualità vincenti in una Italia confusa e spaventata, che brancola nel buio. Eravamo in tanti a pensare, e a illuderci, che Bersani fosse l’antidoto a Berlusconi. Quando il Pd ha fatto le primarie, un esercizio di democrazia di cui può vantarsi e un esempio che nessuno ha mai seguito in Italia, il popolo del centro-sinistra si è affidato a lui, ignorando la freschezza di idee di Matteo Renzi, trattato con sufficienza da una base del partito troppo sicuro di vincere le elezioni.
Bersani è stato incoronato leader di una coalizione che partiva con 12 punti di vantaggio e ha condotto le campagna elettorale, dando per scontato che Berlusconi oramai aveva fatto il suo tempo e considerando il suo ritorno come i “Cento giorni di Napoleone”; sottovalutando nello stesso tempo il fenomeno Grillo che andava raccogliendo gli scontenti dappertutto anche dalle file del Partito Democratico; sottovalutando soprattutto la crisi di fiducia nella politica che stava attanagliando il Paese. Bersani ha affrontato l’impresa in sourplace, come Fausto Coppi, quando gli dicevano a un chilometro dall’arrivo che aveva staccato tutti di parecchi minuti. E invece non si era accorto che dietro si accingevano a correre la volata due avversari che avevano recuperato e che erano Berlusconi e Grillo. Ha vinto di un soffio, anzi non ha vinto affatto ma si è comportato come se avesse vinto veramente.
Prima ha detto che giammai avrebbe fatto patti con Berlusconi, poi si è umiliato davanti ai grillini che hanno preteso che la sua umiliazione venisse fatta conoscere a tutto il Paese attraverso lo streaming. Quindi ha costretto il Parlamento e il Presidente Napolitano a uno stallo che dura oramai da due mesi, per cogliere una seconda occasione attraverso la elezione del Presidente della Repubblica. E qui è arrivato il suo fallimento definitivo: l’accordo sgradito a tutto il suo popolo e a una parte grande e importante del centrosinistra con Berlusconi, un abbraccio che avrebbe bruciato nella culla anche un “redivivo” Sandro Pertini, o un “redivivo” Alcide De Gasperi, per dire quanto di meglio ha offerto storicamente la democrazia italiana.
Perché lo ha fatto? Si dice per avere una seconda possibilità di mettere in piedi uno straccio di governo e sedersi finalmente a Palazzo Chigi, sia pure per poco e in una situazione precaria. Io non ci credo che lo abbia fatto per questo, perché ho troppa stima per l’uomo Bersani. Penso invece che lo abbia fatto in buona fede rincorrendo quella stabilità politica di cui l’Italia ha bisogno. Comunque il risultato è stato disastroso: il partito si è spaccato, la base lo sta abbandonando, Grillo se ne sta con il dito alzato a dare lezioni e il centrosinistra è senza candidato. E senza leader, perché dopo questa sconfitta Bersani deve passare definitivamente la mano e sparire di scena come succede nelle altre democrazie occidentali quando un leader fallisce nel suo disegno politico.
Forse andava fatto subito il contrario: proporre in candidato giusto alle altre forze politiche senza permettere a Berlusconi di assegnare patenti di gradimento. Siamo sempre in tempo: il centrosinistra, insieme al M5S i numeri ce li ha per portare al Quirinale l’uomo che traghetterà il passaggio alla terza Repubblica.
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