di Enrico Fierro
Maria Cinquepalmi (14 anni), Tina Ceci (37), Matilde D’Oronzo (32), Giovanna Sardaro(30), Antonella Zaza (36) erano delle fasoniste, lavoravano in nero per le grandi firme dell’abbigliamento. Per 3,95 euro l’ora davano l’ultimo ritocco a maglie e golfini destinati alle boutique di mezza Italia. Capi costosi che loro, “cinesi” dal dolce accento pugliese, non avrebbero potuto mai acquistare con la miserabile paga che percepivano.
Fasoniste senza tutela, assistenza, versamenti per la pensione. Il nuovo welfare, quello “moderno” auspicato dai Sacconi, dai Brunetta, per l’unico lavoro possibile al Sud, il lavoro nero invisibile ai controlli. “Non mi sento di criminalizzare chi, in un momento di crisi economica, viola la legge ma assicura lavoro”. Lo ha detto il sindaco pd di Barletta, Nicola Maffei, come per giustificare i proprietari di quel minuscolo opificio, che nella tragedia hanno perso la figlia quattordicenne. Parole sbagliate, offensive per i morti, inappropriate, ma che nascondono la rassegnazione delle classi dirigenti meridionali. Non lo ammetteranno mai, ma sanno di aver fallito e non sanno cosa fare. Blaterano parole vuote, perché da decenni non hanno un’idea, un progetto. L’unico obiettivo che hanno è difendere se stessi, alimentare le loro clientele e foraggiare i loro sistemi di potere.
“Nelle aree meridionali il rischio è che la perdita di tessuto produttivo diventi permanente”, scrive lo Svimez nell’ultimo rapporto. Dalla Campania (la regione più povera d’Italia) alla Sicilia, il Sud si avvia a diventare una terra senza lavoro e senza speranze. La politica ancora non lo ha capito, le 583 mila persone (giovani soprattutto) che in dieci anni hanno fatto la valigia come l’antenato Rocco per andar via per sempre, sì. I distretti produttivi (del divano, della maglieria, dell’agro-alimentare), l’industrializzazione delle aree interne sono parole ormai vuote e false. Le macerie di Barletta ci parlano di questo.