di Luisa Marini
Sabato scorso 12 aprile a Monteroni d’Arbia, dove ha vissuto per vent’anni, Massimo Granchi ha presentato il suo ultimo lavoro, “Etnografia del mondo sardo nella letteratura: da Grazia Deledda a Salvatore Satta e Marcello Fois (1908-2009)” – Edizioni il Papavero, 2023 – un saggio che si basa sulla sua tesi di laurea in Antropologia presso l’Università di Siena. L’incontro è stato moderato da Dina Meloni, Presidente del Circolo Sardo “Peppino Mereu” di Siena, che promuove la conoscenza della storia e della cultura sarda attraverso varie iniziative sul territorio.
Granchi, che ha al suo attivo diversi romanzi e racconti, ha spiegato anzitutto come è nato questo lavoro. Già laureato in Scienze politiche con una tesi in storia, curioso di psicologia, si è rivolto allo studio dell’antropologia, che invece scardina la storia con i diversi approcci possibili a una stessa fonte, creando una narrazione differente.
Ecco il contatto di tale disciplina con la letteratura, sua passione: “L’assunto della mia tesi è che esiste tutto ciò che è narrato. I mondi della letteratura diventano così luoghi della ricerca antropologica. Il consiglio del mio correlatore, Pietro Clemente, originario di Nuoro, è stato di non scrivere di sardo, ma di sardi. Allora ho circoscritto l’area (la Barbagia), e ho scelto tre dei suoi autori più rappresentativi, tutti nati a Nuoro. Nei loro romanzi, viene descritto il mondo sardo dello stesso periodo, in varie sfaccettature, io ne ho analizzato i tratti comuni”.
I testi scelti dall’autore sono “L’edera” di Grazia Deledda, “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta e “Stirpe” di Marcello Fois, scrittore contemporaneo. Deledda, in modo emancipato e con grande autonomia, fu la prima a descrivere, a inizio Novecento, una Sardegna fino a quel momento sconosciuta, e per questo venne molto criticata dai conterranei, e non solo: lo stesso Pirandello, nei salotti letterari romani che condividevano, la criticò e isolò.
La prima delle caratteristiche comuni a questi tre autori è l’estrema malinconia e tristezza dei sardi. Al tempo si moriva molto presto, si provava un senso di isolamento e la povertà era diffusa. I sardi si sentivano un popolo invaso da un altro popolo, che chiedeva di parlare in italiano, quando l’unica lingua usata fino a quel momento era stata il sardo. Dopo l’unificazione, il potere pubblico e quello ecclesiastico tenevano a distanza la popolazione, e pochi studiavano. Cagliari e Sassari, città universitarie, erano considerate “contaminate” in quanto culturalmente aperte, i nuoresi sostengono ancora oggi “i veri sardi siamo noi”.
Ma era in queste città che si formavano le classi sociali più significative, gli uomini diventavano avvocati o notai, e le donne, per emanciparsi, si sposavano. Nella voglia di raggiungere il benessere economico e sociale, o nella perdita di esso (c’erano i nobili decaduti), ecco fare capolino il secondo tratto: “se non possiedi (la terra, la casa), non sei nessuno”. Ma legata al possesso di beni materiali o personali (bellezza, successo, tanti figli), c’era spesso l’invidia, e il conseguente malocchio, molto temuto. In Sardegna convivevano sacro e profano: una figura importante era quella del sacerdote, che incarnava un grande potere perché aveva il controllo dell’anima, ma era la bruscia (la strega) a togliere il supposto maleficio.
Se nelle larghe fasce della popolazione la povertà da combattere era un assillo quotidiano, era conseguente che nelle famiglie più numerose molti bambini maschi erano dati ai pastori per poterli sfamare, ma erano trattati come animali. Le bambine invece venivano affidate a un’altra famiglia, che le accoglieva e curava come fossero proprie, si trattava della parentela “fill’e anima”, terzo lato analizzato da Granchi. In queste bambine scattava una necessità psicologica di restituzione e diventavano di fatto teracche, servette.
La parentela è un’invenzione culturale fondata sui legami di sangue, in realtà in molte culture mondiali è diverso; ad esempio, spesso la condivisione di un evento, anche drammatico, ha la forza di unire più che l’essere fratelli o sorelle. Il senso di essere fill’e anima in Sardegna è profonda e sta nella condivisione. Si parla infatti di “anime nella terra”: le sostanze del corpo dei defunti sono il nutrimento che torna alla terra, e il cibo diventa un centro di energie che si condivide nel mangiare insieme.
Un altro tratto in comune è l’accoglienza, considerata sacra in Sardegna. Essa è descritta così da Granchi: “sono povero, ma ti mostro il meglio di me. Ti apro la mia casa, non ti conosco ma ti accolgo, condivido con te quello che ho”. Una caratteristica non rivolta solo ai propri simili, ma anche agli estranei. Un popolo invaso e sopraffatto dovrebbe essere sospettoso, invece l’ospitalità era – ed è tuttora – sinonimo di fiducia, la diffidenza era cancellata con questi atteggiamenti. Legato a questo, il senso di sacralità dei luoghi in quanto vissuti e antropizzati (“trasformo uno spazio perché lo vivo”) e perciò da condividere: la casa, la campagna, la festa.
Infine, un’altra peculiarità dei sardi è stata quella di avere una scarsa fiducia in sé stessi. Tra i tre autori, Marcello Fois è portatore di un maggiore ottimismo, perché ha visto cos’è successo dopo e dunque ha uno sguardo più contemporaneo. In tempi moderni, la Regione autonoma ha infatti attivato molte iniziative di sostegno, spingendo i sardi a formarsi fuori per poi tornare e realizzare qualcosa di positivo per la propria terra.
Oggi, il senso di orgoglio e appartenenza alla Sardegna ha creato, al di fuori dell’isola, una rete di circoli in Italia e all’estero che, come quello intitolato al poeta Peppino Mereu, rappresentano piccole comunità coese che tengono vive le proprie tradizioni ancestrali e promuovono la propria ricchissima cultura. Massimo Granchi, chiudendo l’incontro, ha detto che con questo libro ha voluto restituire alla Sardegna un po’ dell’amore ricevuto nel tempo.